Commento filosofico alla
Lettera a Marcello
Passato e verità
Ciò che non more e ciò che può morire
Non è se non splendor di quella idea
Che partorisce, amando, il nostro Sire
(Dante, Paradiso XIII, 52-54)
Platone spesso collega la pratica della
filosofia con la riflessione sulla morte. In questa lettera anch'io affronto in
qualche modo, con la semplicità e la commozione del caso, il problema. Mi è
divenuta cara perché - a parte gli affetti - esprime senza tecnicismi un
approccio al problema d'impronta, direi, classicamente agostiniana.
L'argomentazione centrale, filosofica, suppone
l'immutabilità del passato e prescinde da considerazioni secondarie sulla
pluralità delle interpretazioni attuali del passato o delle prospettive
attraverso le quali il passato ebbe ad accadere in passato, tutte ammesse
come possibili. Prescinde anche dall’eventuale esistenza di “integrazioni” del
passato in massimali imprecisati, in base a sue proprietà recondite o a
potenzialità irrealizzate, poiché questa ulteriore ipotetica ricchezza del
passato non sposterebbe di una virgola il problema: quel che è apparso è
comunque apparso, quel che è stato è stato.
L'immutabilità del passato implica quella della
verità, o di un suo senso elementare, che si basa su assunzioni circa l'identità
delle cose e la natura della mente che di questa identità è un referente
imprescindibile. L'ipotesi dell'immutabilità del passato, sulla quale si basano
non solo le convinzioni ordinarie della gente, ma perlopiù anche la ricerca
scientifica, storica, naturalistica e filosofica, è parsa quasi sempre scontata.
Ci sono ovviamente eccezioni. Oggi il problema è assai dibattuto nell'ambito
delle interpretazioni della
fisica quantistica, in riferimento, per esempio, agli esperimenti di "scelta
ritardata" (Wheeler) o di "misurazione annullata". Ma controversie ci furono già
nell'antichità. San Gerolamo nel IV sec. d. C. sosteneva che Dio poteva fare di
tutto, ma non che ciò che era accaduto non fosse accaduto. San Pier Damiani, al
contrario, nel suo De divina omnipotentia (XI sec.), protestava contro
san Gerolamo, provando contro di lui "che la volontà di Dio è la sola causa
dell'esistenza di ciò che esiste. E quando gli si obbietta che Dio può
distruggere Roma, ma non può far sì che Roma non sia esistita, risponde che se
questo è vero del passato, è vero ugualmente del presente e dell'avvenire,
perché se è impossibile che ciò che è accaduto non sia accaduto, è anche
impossibile che ciò che accade non accada e che ciò che deve accadere non debba
accadere. Conseguenza empia e contraria alla fede [...]. Non dobbiamo introdurre
in Dio le regole del discorso, né le leggi della dialettica, perché il
sillogismo non s'adatta senza difficoltà al mistero della potenza divina; le
necessità logiche delle nostre conclusioni non valgono per Dio. Infatti Dio vive
in un eterno presente; egli è quindi sottratto alle condizioni stesse in cui il
problema si pone, perché per lui non c'è né passato né avvenire". (E. Gilson,
La filosofia nel Medioevo, La Nuova Italia, pp. 286-287)
Il radicale "contingentismo" (contingenza:
qualità delle cose che sono ma potrebbero anche non essere), e il tendenziale
fideismo un po' oscurantistico di Pier Damiani, non toccano l'autentica sostanza
del problema, che sarà poi amplificato e dibattuto nelle grandi teologie del XIV
sec. quando, con Duns Scoto e Ockham, pure molto dissimili tra loro, emergeranno
i concetti di potentia Dei absoluta (la potenza assoluta di Dio,
comprensiva di tutti i possibili mondi alternativi, purché autoconsistenti, cioè
non contraddittori); e di potentia Dei ordinata (la potenza di Dio
realizzata nel mondo, o nel nostro mondo, comprensiva solo di ciò che di fatto
avviene).
Il problema, assai intrigante, oggi inizia a
toccare forse per la prima volta nella storia le coscienze della gente. Prova ne
è il fatto che molti films rivelano un grande interesse per questi temi,
iniziando a trattare di un passato plasmabile, alterabile, oppure alternativo.
Interessanti, a questo proposito, le approfondite analisi sul tempo,
sull'accadimento, sul senso del passato in Destino della Necessità, uno
dei fondamentali risultati della speculazione filosofica di
E. Severino. In Severino si trova anche un'interpretazione del perché il
pensiero contemporaneo (la Tecnica) nella sua "follia" voglia ridurre al nulla,
con tutti gli immutabili, anche l'immutabilità del passato. Interessantissimi
anche, come ho già ricordato, i dibattiti in sede scientifica, soprattutto nel
campo della meccanica quantistica, ma anche in cosmologia (che è oggi
prevalentemente evoluzionistica) e, in generale, in
fisica teorica, essendo il grande problema della fisica attuale, quello di
conciliare il determinismo "classico" (relatività) con tutte le paradossali
stranezze del quantistico. Qualsiasi discussione si basa poi su assunzioni di
natura filosofica,
logica o logico matematica: notevole anche in questo campo lo sforzo per
chiarire, delimitare, giustificare o fondare i presupposti del pensiero.
Nella lettera non prendo di petto questo
problema, ma seguo una pista assai più tradizionale. Il passato è stato quel che
è stato. Non argomento alcunché sulla sua determinatezza, data per scontata più
o meno sulla base di un'intuizione di questo tipo: il passato (risulti pure
"inattingibile") sarà stato in un modo piuttosto che in un altro; anche
se apparso in varie prospettive, sarà pur sempre, al minimo, in quelle
apparso, ecc. Riguardo all'eventuale esistenza di un passato indeterminato (che
aprirebbe nuovi problemi: in che senso o sotto quali aspetti "indeterminato"?),
avrei sostenuto che la sua verità (il suo esser se stesso) consisterebbe proprio
nella sua indeterminazione. Le cose dunque - siano pure parte di un massimale
dal quale posson ricevere nuovi sensi e interpretazioni - sono date, stabilite
per sempre nella loro elementare, tautologica verità. La mente testimonia
parzialmente questa verità, vi si apre, scopre di appartenerle e insieme di
includerla, di ospitarla, in quanto la mente è, imprescindibilmente,
l'apparire stesso di quelle cose e del loro essenziale esser se stesse. C'è
allora uno spazio costitutivo della mente, un ambiente, uno sfondo
intrascendibile del pensiero, della memoria e dell'immaginazione (l'abditum
mentis di Agostino), in cui le cose appaiono almeno nella verità del
loro apparire e scomparire, del loro essere ed essere state identiche a sé; dove
quindi si conserva una impregiudicata totalità del loro accadere. Un puro
essere, un apparire, nel quale l'essere (l'apparire) appare e anche sfiorendo si
conserva. Lo sfondo intramontabile della verità.
Un'espressione, anche, del fondamento, del Sé
di tutte le cose, e della sua radicale intimità a tutto, a noi stessi, al nostro
pensiero.
La verità a sua volta, per quanto possa essere
incapsulata in teorie che la localizzano o indicizzano rispetto allo spazio e al
tempo, o ai molti universi, o alle informazioni del singolo, ai requisiti
dell'adattamento, ecc. ("verità in una stanza", si leggano a tal proposito le
osservazioni di Robert Nozick in Invarianze, la struttura del mondo oggettivo;
cfr. anche teorie deflazionistiche della verità) apre in un modo o nell'altro a qualche
tipo di necessità. Questa, a sua volta, appare ed è.
Ho
logos, ho on.
Il resto è lasciato nell'ombra. Con le sue
aporie.
Pietro De Luigi, ottobre 2005
Vedi anche:
Gli uomini non diventano polvere
Che cosa significa
pensare
di E. Severino.
Inoltre: G. Barzaghi,
Tracce per navigare,
I distici di Silesius
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