La Terra di Hûrqalyâ.
Percepire le cose in Hûrqalyâ significa ricondurle al loro archetipo per
restituirle a se stesse, alla loro singolarità ontologica, vera e soggettiva ad
un tempo. Né materia né spirito, o, piuttosto, entrambe le cose. L’anima vede il
suo oggetto rendendosi presente a se stessa, così «la verità di ogni conoscenza
oggettiva viene ricondotta alla coscienza che il soggetto conoscente ha di sé»
(H. Corbin). Questo è fondamento epistemologico per il nostro impegno artistico,
pedagogico, teoretico.
Tutte le mie
iniziative sono nate sotto questo
"marchio" che è stato per me un punto di riferimento e un costante motivo
d'ispirazione.
Cip e Ciop La storia di Esopo Il Libro della Saggezza Antica Traduzioni
Vedi
anche:
Enoch Arden
La
Terra di Hûrqalyâ designa uno dei paesaggi immaginari della ricca
tradizione del misticismo islamico (soprattutto sciita), è la terra mistica,
celeste, il luogo dell’anima (‘àlam al-mithàl o mundus imaginalis)
nel quale si realizzano le esperienze più vere e significative dello spirito. Il
fatto che sia paesaggio “immaginario” non significa che sia irreale, anzi. Si
tratta proprio della condizione in cui la realtà diventa teofania e rivelazione
di sé, facendosi più
trasparente che altrove. Accedere ad Hùrqalyà significa dal mio
punto di vista approssimarsi ad una visione compiuta, non dimidiata del reale,
dove coscienza e realtà si penetrano spalancandosi alla totalità che insieme le
circoscrive, le identifica, le attraversa. In questo senso (e lasciando
impregiudicati rispetto al contesto originario - forse semplicistico - i
rapporti con fisica, psicobiologia e metafisica) ho assunto Hùrqalyà come
un simbolo, facendone il “luogo” dei miei
lavori, anzi, del mio lavoro quotidiano. Ho tratto il termine da
Henry Corbin (1903-1978) eminente filosofo,
storico e studioso del misticismo islamico. Per chi sia interessato, consiglio i
suoi libri Corpo spirituale e Terra celeste (Dall’Iran mazdeo all’Iran
sciita) e Storia della filosofia islamica, entrambi pubblicati da
Adelphi. Essi costituiscono un’eccellente introduzione a temi di portata
universale presenti nella tradizione islamica. A parte l’interesse in sé
degli argomenti trattati in questi (ed altri simili) volumi penso che oggi
l’Occidente debba farsi carico di una considerazione non superficiale dell’Islam
e delle sue tradizioni per giungere a saper discriminare con intelligenza il
"grano" dalla "zizzania" che l’ignoranza e il fanatismo stanno ormai da tempo
seminando. Solo una valutazione dall’“interno” di ciò che vale può consentire
alla lunga la nascita, in una società ormai globalizzata come la nostra, di un
obiettivo terreno di confronto nell’ineludibile necessità di costruire “ponti”
tra le culture.
Sono giunto ad Henry Corbin in primo luogo tramite C. G. Jung,
che ho lungamente studiato tra gli anni ottanta e novanta, e poi anche grazie al
mio interesse per il pensiero medievale, le cui correnti arabe sono state così
importanti per lo sviluppo del nostro pensiero. Forse Corbin, nello sforzo di
rivalutare la cosiddetta corrente "orientale" - una filosofia dell'illuminazione
d'impronta teosofica inaugurata da Avicenna
- ha forse sottovalutato, pur non ignorandoli, i risvolti negativi legati alla grande svolta
avvenuta nel pensiero islamico dopo Averroè. Una
rivisitazione attenta e approfondita della grande fioritura dell'islam
medievale e della sua crisi si trova anche in Alain De Libera, in Storia della filosofia
medievale, Jaca Book. (De Libera ha pubblicato anche altri testi sul tema).
Dopo la straordinaria stagione medievale questo pensiero è divenuto incapace di relazionarsi alla realtà
in modo razionalmente critico, e ciò su due fronti solo apparentemente contrapposti:
da una parte ha reciso i propri legami col passato, dall'altra ha perso sempre più di
attualità. Così, in sintesi, si esprime De
Libera:
"Passato il medioevo, i musulmani hanno
cessato di rivendicare per sé, come bene loro proprio o come parte
di un'eredità spettante loro di diritto, la loro parte d'Occidente, di grecità o
di scienza detta 'estranea'; hanno cessato di addurre come titolo meritorio il
ruolo avuto nella tradizione scientifica, in questa translatio studiorum
dalla Grecia al mondo islamico o, come si dice 'da Alessandria a Baghdad' - noi
aggiungiamo 'a Cordova'. [...] Si cessò, secondo la bella espressione di
al-Kindi, di 'far parlare l'arabo' alla scienza straniera, [...] nel momento in
cui cessarono le traduzioni. [...] Passata l'età d'oro abbaside, i sapienti
arabi, berberi, turchi o persiani non hanno letto i loro contemporanei.
L'arresto della traslazione degli oggetti di studio ha
determinato l'arresto della traslazione dei centri di studio. Non
avendo alcun contatto con i loro contemporanei, i mondi musulmani hanno rotto
con gli Antichi, con i loro Antichi; così sono usciti dalla loro propria
storia". (Alain De Libera, Storia della filosofia medievale, Jaca Book,
pp. 175-176).
Tutto ciò ha aperto un'abissale frattura tra
religione e cultura, frattura di cui il mondo islamico, e non solo, sta ancora
pagando lo scotto (cfr. Fedeli a oltranza,
di V. S. Naipaul). In Lettera a un kamikaze (2004), Khaled Fouad Allam,
sociologo di origine algerina, scrive:
"Dall'inizio dell'800 guardiamo il presente attraverso le chimere del passato, e
la critica è ormai assente dal nostro linguaggio. Così, vivendo in un passato
sublimato, rimaniamo prigionieri della storia ed esclusi dal presente [...]
Ricordo il grido di un caro amico di fronte al vuoto di quella lunga notte del
pensiero: «Chi ha pensato per me nel '500, nel '600, nel '700?»" (p. 22).
E ancora: "Averroè intuì ciò che sarebbe accaduto duecento anni dopo. Il rogo
dei suoi libri ha forgiato le nostre catene: il non aver ascoltato i suoi
consigli, il non aver compreso il suo insegnamento ha significato costruire le
mura di una prigione che ancora oggi non riusciamo ad abbattere." (p. 42).
Per un approfondimento sulla Terra di Hûrqalyâ vedi
Henry Corbin.
Pietro De Luigi
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