Emanuele Severino:
CHE COSA SIGNIFICA PENSARE
da "Introduzione" (par. 10) a La
struttura originaria,
edizione del 1981, pp. 90-95
La struttura
originaria muove
anche un passo decisivo lungo il cammino che porta al tramonto il concetto
occidentale di «pensiero». Per l’Occidente il pensiero è «gesto», «atto»,
«azione», «operazione». È anzi il gesto nella sua assoluta purezza e agilità. Il
gesto è qualcosa che sopraggiunge (gestus è da gerere, «far sì che
qualcosa sia compiuto»), cioè vien fatto, sospeso, rifatto, ripetuto, comandato.
Il pensiero è così, come tale, la più precaria e instabile delle cose. Può anche
pensare l’eterno, ma il pensiero è un atto che va e viene, si interrompe, è
oggetto di volontà. «Noi» dicono gli abitatori dell’Occidente «vogliamo
pensare». Anche quando l’idealismo intende il pensiero come «atto puro» o
pensiero trascendentale, il pensiero conserva un tratto essenziale del gesto:
l’agilità dell’autoproduzione. E nella metafisica classica e moderna, il
pensiero di Dio è immutabile non in quanto pensiero, ma in quanto divino.
L’immaginazione dei mortali associa il pensiero alla luce del lampo o di una
serie di lampi nella notte del non pensare: una luce che può essere più o meno
lunga, ma che ha la precarietà dell’intermittenza, dove si tende a identificare
un primo e un ultimo termine della serie. Prima, l’oscurità che precede la
nascita del mortale, poi l’oscurità della morte. Per la teologia cristiana,
l’anima - il soggetto del pensare - è immortale, ma è creata nel tempo e viene
sostenuta nella vita eterna dalla volontà di Dio. Senza questa volontà, anche
l’anima si spegnerebbe, come ogni lampo.
Al di fuori del nichilismo dell’Occidente, il
senso essenziale del pensiero è l’apparire del Tutto. E l’apparire è eterno,
come ogni ente. Ed è l’apparire della propria eternità. L’apparire eterno non è
qualcosa che vada cercato lontano: è anzi il più vicino: anzi è la dimensione
rispetto alla quale le cose possono essere dette lontane o vicine. In questo
senso, è l’apparire attuale; ma non perché questa attualità abbia
qualcosa a che vedere col senso occidentale dell’«atto». L’apparire attuale è
l’apparire che appare: se è detto «attuale», la sua «attualità» indica il suo
differire dall’apparire che rimane nascosto. (E quest’ultimo è proprio
l’apparire dove il Tutto non appare nascondendosi - questo apparire
nascondendosi è appunto l’apparire attuale -, ma appare nella ricchezza concreta
e piena delle sue determinazioni: cfr. Essenza del nichilismo, «Il
sentiero del Giorno», XVII sgg.). Questo attuale apparire del Tutto è
l’apparire che da millenni e già da sempre e per sempre illumina il Tutto.
Questo in cui appare il nostro mondo, e la storia dell’Occidente, e l’intera
vicenda dei mortali. Questo, che non è opera degli uomini o degli dèi (e
in cui appare l’alienazione dell’operare). I millenni della storia scorrono al
suo interno.
Nella Necessità di questo suo senso, il pensiero
non è gesto, atto, opera, azione, ma il luogo in cui sopraggiunge ogni gesto,
atto, opera, azione (i quali, nella loro essenza, sono la persuasione, la
volontà, la fede di gestire, agire, operare). È anzi, il pensiero,
il luogo in cui sopraggiunge la terra, ossia tutto ciò che può sopraggiungere. [Terra
è, in Severino, termine tecnico]. In quanto è l’apparire di tutto ciò che
appare, esso non sopraggiunge e non si allontana, perché il sopraggiungere e
l’allontanarsi significano l’entrare nell’apparire e l’uscire da esso. Il
pensiero non è il gesto e il lampo, ma la ferma volontà del cielo, in cui
procedono e si alternano le costellazioni dell’essere, gli eterni astri del
«Sentiero della Notte» (gli eterni astri della vicenda del mortale e della
storia dell’Occidente) e, se è necessario che si manifestino, gli eterni astri
del «Sentiero del Giorno». E anche ciò che nel linguaggio dei mortali viene
chiamato «i nostri pensieri», «i nostri sentimenti», «i nostri stati d’animo»,
«i nostri atti di volontà» sono essi stessi astri eterni dell’essere, che
entrano ed escono dalla volta eterna dell’apparire, ossia dal cerchio stabile in
cui consiste il senso autentico del pensiero. Non guidati o voluti da uomini o
dèi (quindi nemmeno dal dio di Gesù), appartengono alla terra, che è
accompagnata dal Destino attraverso la volta dell’apparire. La volta del cielo,
come lo stabile suolo, non ha alcuna «agilità» - non è un agere, un
«mettersi in movimento», uno spiccare il volo. Ogni volo si compie al suo
interno, e non è «spiccato», cioè distaccato dal Destino che conduce
nell’apparire gli astri eterni dell’essere.
Ma la necessità che questo sia il senso autentico
del pensiero è la necessità che il pensiero sia l’apparire della struttura
originaria della Necessità. Uno dei tratti emergenti di questo libro è che il
pensiero è struttura - in un senso del tutto estraneo allo strutturalismo
(anche per motivi cronologici: La struttura originaria viene pubblicata
nello stesso anno della Antropologia strutturale di Lévi-Strauss). È
attraverso un’ispezione empirica, cioè un’operazione scientifica, che lo
strutturalismo perviene al rilevamento di certe strutture costanti nel
comportamento dei gruppi sociali. Ne La struttura originaria il
pensiero, in quanto apparire, è struttura, perché nella nella struttura
originaria della Necessità l’apparire include originariamente sé stesso nel
proprio contenuto (ossia nella totalità degli enti che appaiono). La
Necessità non è tale senza questa originaria autocomprensione dell’apparire
(cfr. cap. II, parr. 11-23). Appunto a questi paragrafi de La struttura
originaria si riferisce Essenza del nichilismo («La terra e l’essenza
dell’uomo», XVII). Autocomprensione o «autocoscienza».
Ma l’autocoscienza idealistica è il risultato del
processo di autorealizzazione dell’essere. Al di fuori del nichilismo
dell’interpretazione idealistica del pensiero, l’autocomprensione dell’apparire
non è un movimento che ritorna su di sé, un gesto che indica un gesto già
compiuto, un atto che cresce su di sé, ma è un immutabile stare, un’iride
eterna. Questa iride eterna che è l’apparire attuale. Nella storia
dell’Occidente, se il pensiero è questo pensiero attuale, non è pensiero
immutabile (la stessa eternità del pensiero è il processo eterno di creazione e
distruzione delle cose); e, se il pensiero è immutabile, non è questo
pensiero attuale. Nella struttura originaria della Necessità il pensiero,
in quanto apparire, è l’iride ferma in cui si illumina lo spettacolo eterno
della Necessità e in cui sopraggiunge l’eterno astro della terra e
dell’isolamento della terra.
Il linguaggio che parla della struttura originaria
non la circonda e non la raggiunge dall’esterno. Questo linguaggio che va e
viene, che parla della struttura originaria, ma smette anche di parlarne e torna
ancora a parlarne e così via in un’alterna vicenda, è esso stesso uno degli enti
della terra che si inoltrano nella volta dell’apparire - un ente che in certo
modo accompagna tutti gli altri enti, mettendoli sul piedestallo del nome. Non è
che il linguaggio ci faccia rivolgere alla struttura originaria, ce ne distolga,
ci faccia tornare a pensarla. Non è che, con esso, si incominci, si smetta e si
torni a pensare la Necessità: sono le parole del linguaggio, quindi del
linguaggio che parla della struttura originaria, che ritornano
all’interno dello stesso pensiero, cioè all’interno dell’apparire della
struttura originaria. Non è che la parola si faccia incontro ad essa,
dall’esterno, la raccolga e la metta su di sé: anche la parola, quindi anche la
parola che parla dell’originario, è un eterno astro dell’essere che entra ed
esce dal cerchio eterno dell’apparire dell’originario. L’originario vede in sé,
vede sopraggiungere in sé il linguaggio da cui è parlato.
È quindi l’originario stesso che vede, in sé,
sé come autocomprensione. Questo vedersi è l’apparire dell’apparire di
sé, ossia è la coscienza dell’autocoscienza. Il linguaggio che, nel capitolo II,
esprime l’autocomprensione dell’apparire, sopraggiunge appunto all’interno della
coscienza di questa autocomprensione. L’iride ferma dell’apparire è dunque
struttura, nel senso che è l’apparire dell’apparire dell’apparire. Ma i tre
sono il medesimo apparire: questo è quanto viene determinatamente chiarito
nel capitolo II (dove tuttavia l’accento è messo sulla medesimezza che si
costituisce nell’autocomprensione dell’apparire) e nel passo succitato di
Essenza del nichilismo. Proprio perché è necessario che l’apparire sia
originariamente apparire di sé, il cerchio dell’apparire contiene sé
stesso, ma non come un cerchio di area maggiore che ne contenga uno di area
minore: l’apparire (sia A2) che appare è lo stesso apparire
(sia A1) in cui esso (cioè A2) appare. E l’apparire (sia A3)
di questa identità con sé dell’apparire è lo stesso apparire identico a
sé: A3 = A2 = A1. Ciò vuol dire che A3
non è una riflessione (un atto di riflessione) che sopraggiunga assumendo
come contenuto l’identità di A1 e A2: A3 è lo
stesso A2 e cioè è lo stesso A1.
Ma ciò non significa che esista solo uno di questi
tre termini: appunto perché l’apparire non è soltanto il comprendente , ma anche
il compreso, cioè esiste sia come comprendente sia come compreso; sì che, in
questo senso, l’identico si distingue. E questo distinguersi, a sua volta,
appare, è a sua volta compreso dall’apparire (dall’apparire, cioè, su cui si
fonda questo parlare del distinguersi, e che si distingue, in quanto
comprendente il distinguersi, dai distinguentisi). Proprio perché l’apparire è
tale, ossia apparire di qualcosa e quindi, necessariamente, di sé,
il riferimento a sé è, insieme, l’identità e la differenza dei termini
del riferimento. Il riferimento implica la differenza, il riferimento a
sé implica l’identità. [...]
È in questa ferma unità triplice dell’apparire che
si inoltra l’eterno astro della terra. L’unità triplice dell’apparire è l’eterna
volta intramontabile del pensiero, in cui appare l’eterno astro intramontabile
della Necessità e in cui sorgono e tramontano gli astri eterni della terra.
Se nel capitolo III di questo libro è pienamente
esplicito che l’apparire dell’apparire non può essere, in quanto tratto della
struttura originaria della Necessità, un libero atto di riflessione che venga
operato su un precedente riflettere e che possa quindi diventare oggetto a sua
volta di una nuova riflessione, nel capitolo V si considera il senso di questa
riflessione, quando essa sia intesa non come ciò cui è affidato il costituirsi
della struttura originaria della Necessità, ma come una possibilità
(parr. 31-34). Globalmente, il discorso che questo libro conduce su questo punto
è che se l’apparire della Necessità è la struttura della ferma unità triplice
dell’apparire (cap. III), tuttavia è possibile una riflessione su
questa struttura, e anzi una «serie» di riflessioni (cap. V, parr. 6-16). È in
questa seconda parte del discorso che ne La struttura originaria
ricompare quel concetto del pensare come «gesto», «atto», che, pure, è proprio
il senso di fondo di questo libro a mettere radicalmente in questione.
[...]
Lo sviluppo della serie possibile, in cui
l’unità triplice dell’apparire appare e in cui quest’ultimo apparire a sua volta
appare, e così via, è allora necessità che non sia uno sviluppo della
riflessione sull’unità triplice dell’apparire dell’originario, bensì uno
sviluppo dell’analisi del contenuto di tale unità. Non sopraggiunge il
nuovo gesto che comprende all’interno di sé ciò che era la totalità
dell’apparire, essendo esso, ormai, la nuova totalità, che potrà essere a sua
volta ricompresa in un gesto più ampio; ma è all’interno della ferma volontà
dell’unità triplice dell’apparire che si sviluppa l’analisi di ciò che questa
volta racchiude. Non una nuova luce (o una serie di nuove luci sempre più
estese) sulla luce dell’originario, non nuovi cerchi sempre più ampi
tracciati attorno ai tre cerchi identici e reciprocamente comprendentisi
dell’unità triplice dell’apparire; ma lo sviluppo dell’analisi della struttura
interna della ferma luce dell’originario, cioè dei tre cerchi dell’originario.
Non è la volta dell’apparire che si sposta più in alto o è ricompressa in una
volta più alta, ma sono i tratti del contenuto da essa protetti che si fanno più
articolati e più ricchi. Se infatti nella struttura della Necessità, l’identità
di A1, A2, A3 esclude ogni regressus in
indefinitum nell’autofondazione dell’originario, l’analisi può rilevare che
in tale identità, strutturantesi come coscienza dell’autocoscienza, la coscienza
che è contenuto dell’autocoscienza è la stessa coscienza dell’autocoscienza,
sì che la coscienza dell’autocoscienza è coscienza della coscienza che ha come
contenuto la coscienza dell’autocoscienza. In questo modo, accade certamente uno
sviluppo, ma uno sviluppo che non è della riflessione dell’apparire sull’apparire
dell’originario, ma è sviluppo dell’analisi che mostra come la coscienza della
coscienza che ha come contenuto la coscienza dell’autocoscienza è lo stesso
della coscienza dell’autocoscienza. L’analisi può svilupparsi senza limiti, ma
proprio per mostrare come la molteplicità dei termini che sempre più numerosi
sopraggiungono nell’originario, è lo stesso dell’unità triplice
dell’apparire dell’originario. Se lo sviluppo della serie viene inteso non come
sviluppo della riflessione sull’originario, ma come sviluppo dell’analisi
del contenuto dell’originario (o se per «sviluppo della riflessione» si
intende lo sviluppo dell’analisi di tale contenuto), allora il capitolo V si
libera della contraddizione sopra rilevata.
(E. Severino, «Introduzione» a La struttura originaria,
nuova edizione ampliata del 1981, pp. 90-95. Questa «Introduzione» è datata
“Primavera 1979-Primavera 1981”, ed offre un'interessante rivisitazione critica
all'impianto complessivo de La struttura originaria, risalente al 1958)
Cfr. di
G. Barzaghi "Il soliloquio sul divino"
e la proposta sull'Imago Trinitatis nell'uomo in
Oltre Dio
Cfr. I distici di
Silesius
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