Brani da
vari scritti di Emanuele Severino
Sul
"fondamento"
La storia della filosofia
occidentale è la vicenda dell'alterazione e quindi della dimenticanza del senso
dell'essere, inizialmente intravisto dal più antico pensiero dei Greci. E in
questa vicenda la storia della metafisica è il luogo ove l'alterazione e la
dimenticanza si fanno più difficili a scoprirsi: proprio perché la metafisica si
propone esplicitamente di svelare l'autentico senso dell'essere, e quindi
richiama ed esaurisce l'attenzione sulle plausibilità con cui il senso alterato
si impone. La storia della filosofia non è per questo un seguito di insuccessi:
si deve dire piuttosto che gli sviluppi e le conquiste più preziose del
filosofare si muovono all'interno di una comprensione inautentica dell'essere.
Ma queste espressioni alludono
a qualcosa di radicalmente diverso dall'interpretazione heideggeriana della
storia della filosofia occidentale. La diversità è radicale, perché anche il
pensiero dello Heidegger è una sorta di alterazione, e non meno grave, del senso
dell'essere. Per lui, la più antica filosofia greca intravvede l'essere come
'presenza', ossia come l'apertura o l'orizzonte entro cui può giungere a
manifestazione ogni determinatezza dell'ente. Resta così invertita la direzione
della storiografia idealistica, che vede invece nell'orizzonte - l'attualista
direbbe: nel pensiero, nell'atto - l'ultimo risultato dello sviluppo del sapere
filosofico. Ciò che per l'idealista è risultato, per lo Heidegger è al contrario
l'inizio; lo sfolgorante inizio che ben presto impallidisce e lascia il campo
alla mistificazione metafisico-teologica dell'essere, nella quale l'orizzonte di
ogni apparizione dell'ente diventa un ente, sia pure l'Ens supremum, das
Seiendste.
[...] Eppure è proprio nei
pochi versi del poema di Parmenide che si nasconde la parola più essenziale e
più dimenticata di tutto il nostro sapere. Per rintracciarla non si richiede
quel sommovimento delle discipline filologiche, che la lettura heideggeriana
pretende, ma un sommovimento ben più profondo e più arduo, quello cioè che porta
alla comprensione della forza invincibile di un discorso che da millenni è
saputo e pronunciato, ma che, appunto, non è più stato capito. Non si tratta
allora di dare significati nuovi alle parole (quasi che riportando l'essere alla
presenza ci si trovasse di fronte a qualcosa di più evidente dell'essere), ma di
pensare quelli vecchi, di ridestarli, e in questo senso, certamente, rinnovarli
sino alle ultime sorgenti.
esti
gar einai, mhden d'ouk estin
(fr. 6, vv.1-2). Le parole
son pure sempre queste, che in varie guise ritornano insistenti nel poema. Il
gran segreto sta pur sempre in questa povera affermazione che «L'essere
è, mentre il nulla non è». Nella quale non
si indica semplicemente una proprietà, sia pur quella fondamentale, dell'essere,
ma se ne indica il senso stesso: l'essere è appunto ciò che si oppone al nulla,
è appunto questo opporsi. L'opposizione del positivo e del negativo è il grande
tema della metafisica, ma esso vive in Parmenide con quella sconfinata pregnanza
che il pensiero metafisico non saprà più penetrare. La semplice opposizione tra
l'essere (inteso come ciò che è) e il nulla (inteso come ciò che non è) resta
infatti nell'ambiguità; e nell'ambiguità prende avvio quel rigoglioso sviluppo
di concetti che porta Platone e Aristotele alla riflessione sul positivo e il
negativo. Ambigua, diciamo, quella semplice opposizione, perché la si può
intendere - come in effetti si incominciò e si continuò ad intenderla - come una
legge, e sia pure la legge suprema, che governa sì l'essere, ma che lo governa -
eccoci al cuore del labirinto - sin tanto che esso è. L'ambiguità, con
queste ultime parole, è già divenuta fatale; il senso dell'essere è già
tramontato. Ma nel tramonto, come ben sapeva Platone, le ombre prendono uno
spicco e una verosimiglianza particolari: dov'è mai l'ambiguità? L'essere si
oppone al nulla; ma è chiaro che può opporvisi solo se è e quando è; perché, se
non è, non è niente e non si oppone a niente. Questo il discorso del tramonto
del senso dell'essere, che trova nel Liber de Interpretatione di
Aristotele la sua formulazione più rigorosa ed esplicita [...] «E'
necessario che l'essere sia, quando è, e che il non-essere non sia, quando non
è; tuttavia non è necessario che tutto l'essere sia, né che tutto il non essere
non sia; non è infatti la stessa cosa che tutto ciò che è sia necessariamente,
quando è, e l'essere senz'altro di necessità. La stessa cosa si dica del non
essere». In questa chiara luce del tramonto, quelle
parole di Parmenide non possono che apparire come esse stesse equivoche:
l'essere è: sì, ma quando è; il non-essere non è: sì, ma quando
non è; non facciamo confusione tra la necessità che l'essere sia quando è
[...], e la necessità simpliciter che l'essere sia [...], tra la
necessità che il non-essere non sia, quando non è, e la necessità
simpliciter che il non essere (le cose che non sono) non sia! Parmenide non
sapeva distinguere.
Eppure
in questo discorso il senso dell'essere si è già dileguato; la stessa chiarezza
del discorso denuncia che la rottura è ormai irrimediabile. Perché la lotta tra
l'essere e il nulla non è come quella che si combatteva tra gli antichi
eserciti, che di giorno guerreggiavano, mentre a notte i capi nemici bevevano
insieme sotto le tende - nemici dunque quando e se fossero stati
in campo: Questo poteva avvenire perché, oltre che nemici, erano anche uomini.
L'essere, invece, è un tale nemico del nulla che nemmeno di notte disarma: se lo
facesse, non si strapperebbe di dosso la propria armatura, ma le proprie carni.
Guardiamolo infatti questo essere, che è quando è. E' il nemico diurno
del nulla: quando è (quando di giorno è in campo), si oppone al nulla; e questa
opposizione vien detta da Aristotele [...] principium firmissimum,
'principio di non contraddizione', quel principio cioè che tutti, anche gli
antimetafisici più ostinati, finiscono sempre, più o meno esplicitamente con
l'accettare. Ma poi vien notte: quando l'essere non è (quando ha lasciato il
campo), allora non si oppone nemmeno più al nulla: perché esso stesso è
diventato un nulla. Tuttavia resta sempre dominato dal principium firmissimum,
perché, quando l'essere non è, non è. L'incontraddittorietà dell'essere sembra
comunque salvaguardata: proprio nell'atto in cui la si sta negando nel modo più
radicale e più insidioso.
Perché
questo essere notturno, questo essere che ha lasciato il campo, è l'essere che
ha lasciato l'essere. E che cosa è mai allora? Che significato possiede la
parola 'essere' nell'espressione: «Quando l'essere non è»? Se
sosteniamo che, quando l'essere non è, l'essere è divenuto nulla, perché
continuiamo a dire: «Quando l'essere non è» e non diciamo piuttosto: «Quando il
nulla non è»? Eppure tra un essere che non è e un nulla che non è non c'è alcuna
differenza. Ciononostante non si è disposti a consentire che l'espressione:
«Quando l'essere non è» sia sostituita dall'espressione «Quando il nulla non è».
Non si è disposti a tanto, perché - nonostante il tradimento che si va
perpetrando - si intende pur tuttavia continuare a tener fermo che l'essere non
è il nulla, il positivo non è il negativo. [...] Pensare «quando l'essere
non è», pensare cioè il tempo del suo non essere significa pensare il tempo in
cui l'essere è il nulla, il tempo in cui si celebra la tresca notturna
dell'essere e del nulla. Ciò che l'opposizione dell'essere e del nulla rifiuta è
appunto che ci sia un tempo in cui l'essere non sia, un tempo in cui il positivo
sia il negativo.
Il tramonto dell'essere avviene
dunque così: nel non avvedersi che acconsentendo all'immagine di un tempo in cui
l'essere non è, si acconsente all'idea che il positivo è il negativo. Che cosa
significa «è» nella frase: «L'essere è», se non che l'essere «non è il nulla»? Ossia «è» significa: «respinge via il
nulla», «vince il nulla», «domina sul nulla», significa l'energia che gli
consente di spiccare sul nulla. Se «l'essere è» significa: «L'essere non è il
nulla», dire che l'essere non è significa dire che l'essere è il nulla. Il
discorso aristotelico (ripetuto dagli aristotelici e dagli scolastici vecchi e
nuovi), ponendo che quando l'essere è, è, e quando non è, non è, dice dunque che
quando l'essere è il nulla, allora è nulla; e non si accorge che il vero
pericolo dal quale ci si deve guardare non è l'affermazione che, quando l'essere
è nulla, sia essere (e quando è essere, sia nulla), ma è l'acconsentimento che
l'essere sia nulla, cioè l'acconsentimento che si dia un tempo in cui l'essere
non è il nulla (quando è) e un tempo e un tempo in cui l'essere è nulla (quando
non è), cioè l'acconsentimento che l'essere sia nel tempo. In questo modo il 'principio di non
contraddizione' diventa la forma peggiore di contraddizione: proprio perché la
contraddizione viene nascosta nella formula stessa con la quale ci si propone di
evitarla e di bandirla dall'essere. Questo principium firmissimum chiude
la stalla dopo che i buoi sono scappati; è un giudice che, colpevole dei delitti
più gravi, punisce i reati di poco conto e che infine nessuno ha intenzione di
commettere.
(da Ritornare a Parmenide, cap 1. Il
tramonto del senso dell'essere, in Essenza del nichilismo,
pp. 20-23, Adelphi)
Sul "destino"
Nei miei scritti 'destino' significa ciò che sta (de-stino) già da
sempre manifesto, e nella cui luce già da sempre l'uomo si trova. Il
destino si mantiene libero dalla dominazione dell'Occidente.[...]
Il destino
vede che ogni essente è ed è impossibile che non sia. Vede che ogni
essente è eterno: ogni istante e il contenuto determinato di ogni istante, ogni
cosa, situazione, aspetto, forma, sfumatura, relazione, sostanza, ogni materia e
ogni pensiero, ogni gesto, ogni verità e ogni errore, e la stessa Follia estrema
dell'Occidente, ogni gioia e dolore, e la presenza stessa, l'apparire, il
manifestarsi di tutti gli essenti. Ogni essente è eterno: non come è eterno Dio,
rispetto alla non eternità delle cose divenienti del mondo; e nemmeno come è
eterna la potenza della verità assoluta che domina il divenire delle cose.
L'eterno non è la potenza sovrastante
del padrone; perché tutto è eterno. Non vi sono servi; non c'è nemmeno un
padrone.
Il destino vede infatti che pensare che l'essente
esce e ritorna nel niente, significa pensare che l'essente è niente. Il destino
pensa l'impossibilità che l'essente sia niente. Questo stesso pensiero, che
pensa l'eternità di tutte le cose, è eterno. Circonda la storia della Follia
dell'Occidente e dei mortali, come il cielo circonda tutti coloro che non lo
guardano. Nella nostra essenza più profonda noi siamo il cielo.
(da La Follia dell'Angelo,
pp. 85-86, Rizzoli).
Sulla "Gioia"
Ma, al di là dell'antropologia e
della teologia dell'Occidente, la 'Gioia' a cui si riferiscono i miei scritti è
il toglimento della totalità delle contraddizioni. Esso non attende il futuro
per compiersi. E' già da sempre. E' eterno.
Come individuo l'uomo è
contraddizione. Ma è contraddizione anche come apertura della verità: nella
misura in cui è un'apertura finita. Ma il luogo dove è tolta la totalità
delle contraddizioni dell'uomo è il luogo dove l'uomo riesce ad essere, già da
sempre, totalmente se stesso. Non è inopportuno chiamare 'Gioia' questo luogo,
perché ogni dolore e ogni angoscia è contraddizione (cioè un essere costretti ad
essere quello che non si vuole essere). Il toglimento della totalità delle
contraddizioni è la manifestazione totale della verità. Noi siamo questa
manifestazione. Noi siamo la Gioia.
(da La Follia dell'Angelo, p. 50,
Rizzoli)
Severino su Barzaghi Gli uomini non diventano polvere Che cosa significa pensare
G. Barzaghi
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