Un capitolo tratto
dal libro:
SOLILOQUI SUL DIVINO
MEDITAZIONI SUL
SEGRETO CRISTIANO
di
Giuseppe Barzaghi
Edizioni Studio
Domenicano (1997)
Note
di copertina
Che cos'è il Cristianesimo
nella sua essenza? Che cos'è la fede? Esiste una comprensione razionale della
fede? Che cos'è la contemplazione? Che relazione c'è tra Dio e mondo?
Questi sono interrogativi certamente importanti. Importanti sia
per chi crede, che per chi non
crede. Questo libro vuole proporre, a
modo di meditazione, lo sviluppo di questi problemi e il tentativo di una loro
soluzione in chiave teologica. Il confronto con il pensiero forte di
Emanuele Severino è l'occasione per la
considerazione del Cristianesimo dal punto di vista dell'eterno. La vita
cristiana infatti non è altro che lo sguardo eterno sull'eterno.
Giuseppe
Barzaghi è sacerdote domenicano. Nato a Monza (MI) il 5.3.1958. Dottore in
Filosofìa (Università Cattolica di Milano) e Teologia (Pontificia Università S. Tommaso
D'Aquino in Roma). Docente di epistemologia teologica (Univ. Cattolica di Milano e Studio
Teologico Accademico Bolognese) e filosofia teoretica (Ateneo domenicano di
Bologna). Socio della Pontificia Accademia di S. Tommaso d'Aquino (l'Angelicum)
di Roma dove
tiene corsi nella sezione dogmatica e nella sezione tomistica. Direttore
della rivista Divus Thomas.
Barzaghi, che è stato anche mio insegnante di
teologia alla Cattolica di Milano, sta da tempo elaborando un
confronto col pensiero severiniano nell'ottica di una "revisione dell'ontologia
classica nell'ambito del pensiero teologico" (P. Sequeri).
IL SOLILOQUIO SUL DIVINO (pp. 44-54)
La teologia, prima di essere
un discorso su Dio, è un soliloquio sul divino.
Sembra tanto strano?
A me pare tanto normale
invece.
Non sto parlando della
semplice teologia filosofica, quella che partendo dalla realtà del mondo arriva
a Dio con la guida della pura ragione naturale.
Qui sto riflettendo o
speculando sulla teologia soprannaturale, quella scienza che cerca la
comprensione della fede attraverso la ragione.
Questo discorso teologico è
dunque già fondato su Dio, perché ha come suo principio o presupposto la fede
rivelata.
È vero - fin troppo ovvio -
che trattandosi di una scienza, anche questa teologia è un esercizio della
ragione; anzi, io direi che è l'esercizio per eccellenza della ragione, perché
lo stimolo riflessivo, che essa riceve dai misteri soprannaturali, è
imparagonabile.
È notevole lo sforzo di
raffinamento concettuale nel tentativo di verificare la non evidente
contraddittorietà dei misteri rivelati, come anche le ragioni di convenienza
proposte a favore della loro verità.
È il solito discorso per cui
non si può credere l'incredibile, e per cui il credibile, in concreto, si
accompagna a dei motivi che rafforzano la sua credibilità - non che lo facciano
credere!
Ma è pur sempre una scienza
che parla di Dio a partire da Dio.
La fede teologale è, in modo
inevidente per noi, la stessa conoscenza che Dio ha di se stesso. Quindi è un
modo di conoscere Dio dal punto di vista di Dio.
Se la teologia in questione è
basata strutturalmente sulla fede, deve essere anch'essa fondamentalmente una
conoscenza di Dio dal punto di vista di Dio.
Non è un'immagine devota, ma
un'affermazione di grande spessore epistemologico, quella sentenza di S. Tommaso
d'Aquino, secondo la quale la teologia è una scienza subalterna alla scienza di
Dio e dei beati (Summa Theologiae, I, 1, 2).
Quindi, il ragionare
all'interno di questa scienza non deve dimenticare questa particolarissima
prospettiva.
Si tratta di un ragionare
divino almeno sotto due aspetti.
Prima di tutto perché ha per
oggetto principale Dio stesso, in se stesso; in secondo luogo - ma non per
secondaria importanza - perché considera Dio dal punto di vista di Dio.
Esisterebbe anche un terzo
aspetto del ragionare divino, quello per il quale lo stesso modo di procedere è
divino: si tratta di quella modalità geniale conferita dalla partecipazione
della stessa vita divina attraverso la grazia.
Ma questa modalità mistica ha
la movenza dell'intuizione e non del ragionamento; quindi non appartiene alla
struttura della scienza teologica.
Non è facile ragionare dal
punto di vista di Dio.
Bisogna indossare panni che
non sono i propri.
È facile cadere in inganno.
Per questo occorre il controllo critico della ragione. Si deve ragionare
dal punto di vista di Dio, non immaginare di essere Dio, come nelle
espressioni "se io fossi Dio, che cosa farei?"
Sto parlando di teologia, non
di fantasia devota o... pietosa!
E per ragionare dal punto di
vista di Dio, occorre scoprire in noi stessi la condizione che è il requisito
naturale, indispensabile per questo discorrere.
Come Dio è solo e nella sua
solitudine è tutto, così, per poter ragionare dal punto di vista di Dio, occorre
scoprire il senso metafisico della solitudine del pensiero, che chiude in sé
tutto.
Sì, voglio dire che prima
ancora di riflettere su contenuti precisi, bisogna riflettere sulla stessa
capacità di riflettere.
Occorre sentirsi avvolti in
qualcosa di intrascendibile, come Dio è intrascendibile, perché non ha nulla che
gli cada al di fuori: non c'è nulla che cada fuori di Dio e quindi lo trascenda!
Questo tipo di esperienza,
che non può essere classificata altrimenti che come metafisica - sì perché è
strutturale, fondamentale, incondizionata e condizionante -, è possibile solo
nella nostra introspezione.
Nel guardare dentro noi
stessi scopriamo la dimensione solitaria e onninclusiva del pensiero.
Solitaria perché onninclusiva
e onninclusiva perché solitaria.
Si tratta di un principio
analitico: ciò che è solo non manca di nulla e ciò che non manca di nulla è
solo!
In una battuta: l'intero o
tutto è a sé stante!
L'atto del pensare è
intrascendibile e, dunque, onninclusivo.
Formidabile! Se penso che ci
sono cose che non penso e non penserò mai, io le sto già pensando. Non si può
scappar fuori dal pensiero, perché non c’è un fuori del pensiero. Il pensiero
come atto è intrascendibile.
E se non c'è un fuori
non c’è neppure un dentro il pensiero. È chiaro: se ci fosse un dentro,
per antitesi relativa ci sarebbe pure un fuori, ma se il fuori non c'è, neppure
il dentro c’è.
Dentro e fuori il pensiero
sono modi di dire che appartengono all'analisi psicologica o cosmologica del
pensiero, non alla sua dimensione metafisica.
Se considero il pensiero in
termini cosmologici o psicologici (comunque sia, la psicologia è una parte della
cosmologia o filosofia della natura), il pensiero è una facoltà umana, ben
distinta, dalle altre; non è il tutto dell'uomo; ha un'origine ed è subordinato
alla causalità, per cui subisce gli influssi della storia.
Ma in linea descrittiva o
fenomenologica, il pensare come atto si presenta con una imponenza tale da non
poter essere assolutamente "catalogato".
Quando cerco di descrivere il
pensiero come atto o il pensare, non posso fare a meno di presentarlo come
l'estensione infinita dell'essere, che non esclude nulla da sé - cioè esclude il
nulla, perché appunto è nulla, non c'è.
II pensiero e l'essere sono
la stessa cosa perché, come nulla è fuori dell'essere, così nulla è fuori del
pensiero.
Perciò il pensiero è la
trasparenza del tutto, cioè dell'essere, contro il quale sta il nulla, cioè
niente.
So benissimo che mi si
potrebbe accusare di immanentismo - del resto, se mi hanno dato del panteista,
vuoi che non mi diano anche dell'immanentista? La caccia alle streghe non è mai
finita. Ma la strega che suggerisce questi pensieri si chiama Mente: non
posso lasciarla, sarei demente!
L'immanenza dell'essere al
pensiero non è fisica, è intenzionale. Si tratta dell'immanenza del manifesto
alla sua manifestazione, del pensato al pensare, del rivelato alla sua
rivelazione.
Pensare che qualcosa cada
fuori dal pensare è contraddittorio.
Tutto è manifesto e dunque
immanente al pensiero che lo manifesta o che è il luogo metafisico della
manifestazione, cioè lo stesso manifestare.
Tutto è manifesto nel senso
che tutto è pensato, non nel senso che tutto sia conosciuto. Una cosa è pensare
e una cosa è conoscere.
Il rapporto che intercorre
tra pensare e conoscere è lo stesso che si dà tra l'indeterminato e il
determinato. L'indeterminato non è altro che il determinato appreso
indeterminatamente.
Il pensiero è la
manifestazione indeterminata del tutto, come il conoscere è la manifestazione
determinata di qualcosa.
Il pensiero è la
manifestazione indeterminata del tutto o il tutto in quanto indeterminatamente
manifesto. Il conoscere, invece, è la manifestazione determinata di qualcosa, o
la cosa in quanto determinatamente manifesta.
Pensando il tutto, tutte le
cose in modo indeterminato, penso anche questa penna, ma non in quanto penna
ne in quanto questa penna; il riferimento alla penna e a questa penna
appartiene determinatamente alla formalità del conoscere, cioè del sapere che
cos'è una cosa o questa cosa, la penna - appunto.
Il pensiero del tutto
indeterminatamente è il pensiero dell'essere, giacché l'essere è il tutto
pensato in modo indeterminato.
E siccome nella conoscenza si
procede sempre dal generico allo specifico, il pensiero precede il conoscere:
nel senso che il pensare è la condizione indispensabile al conoscere -
intendendo la conoscenza nel senso intellettivo e non semplicemente sensitivo o
animale.
Per usare una metafora si
potrebbe dire che il pensiero sta ai concetti della conoscenza come la luce sta
alle cose visibili. Senza luce non si possono vedere le cose sensibili; così,
senza il pensare non è possibile conoscere concettualmente.
Uscendo dalla metafora, si
deve dire che il pensare è l'orizzonte a-specifico dei contenuti, secondo la
loro condizione di possibilità, cioè è l'ambito dell'incontraddittorietà: una
cosa per essere tale, deve essere possibile, cioè incontraddittoria.
Questa condizione di
possibilità, cioè l'incontraddittorietà, è condizione sia dell'intelligibilità
sia dell'essere. Un cerchio quadrato è inconoscibile perché è contraddittorio e
dunque inintelligibile e impossibile ontologicamente. Questo perché è
impensabile! Pensiero e essere coincidono.
Il conoscere, invece, è
l'ambito dei contenuti specifici, cioè concettualizzati. Il conoscere si
riferisce ai concetti; il pensare si riferisce alla condizione di possibilità
dei concetti.
L'essere, come ciò che è
inteso dal pensiero, è un contenuto a-specifico, perché l'essere non è né
genere, né specie, contenendo tutto e non escludendo nulla (Generi e specie,
invece, si distinguono per esclusioni e quindi per il fatto di non essere tutto.
Il genere vegetale esclude l'animale; così una specie ha ciò che un'altra specie
non ha, perché le differenze specifiche si escludono vicendevolmente dal
medesimo soggetto generico: un animale non può essere insieme razionale e non
razionale o bruto).
Non c'è nulla che cada fuori
dell'essere, se non appunto il non essere, che in quanto tale non c'è e quindi
non può essere qualcosa che è fuori dell'essere. Se tutto è nell'essere,
nulla di positivo vi si può contrapporre, quindi tutte le differenze che si
riscontrano tra le cose sono tutte essere.
L'essere è il contenuto
a-tematico, cioè non esplicito, del pensare, perché, se il pensare è l'ambito
della non contraddittorietà, essendo questa fondata ultimamente su quel soggetto
che è l'essere, l'essere è il contenuto implicito ad ogni altro contenuto
esplicito: è il contenuto implicito del conoscere che specificamente si orienta
a contenuti espliciti, concettualmente definiti o definibili.
La legge della non
contraddizione, la verità originaria è questa: l'essere non è il non essere,
cioè il positivo non è il negativo. Questa è la condizione di possibilità dei
contenuti, sia nell'ordine intelligibile, sia nell'ordine reale.
Quindi il contenuto
fondamentale e fondativo del pensare come tale è l'essere, che è il soggetto di
questa legge. Ma è il soggetto non esplicito.
Non c'è bisogno di
esplicitare l'essere per pensare e quindi per ambientare, secondo
l'incontraddittorietà - intelligibilità e possibilità -, il conoscere nelle sue
specifiche determinazioni.
Non c'è bisogno di aver letto
Parmenide o Aristotele, o d'aver studiato per benino tutta la logica e la
metafìsica per capire che una banana non è e non può essere un chiodo. La regia
implicita di questa consapevolezza specifica è data dal pensare o dal pensiero,
che intende l'essere e la sua legge: l'incontraddittorietà.
L'essere è il contenuto
inteso implicitamente dal pensiero che non ha come riferimento immediato un
contenuto specifico, come invece l'ha il conoscere.
Il pensare corrisponde
all'attività dell'intelletto agente, così Come viene descritta nella filosofia
aristotelico-tomista.
L'intelletto agente ha la
funzione di rendere intelligibile l'oggetto della conoscenza, che è l'attività
dell'intelletto possibile. La facoltà conoscitiva è l'intelletto possibile, non
l'intelletto agente.
L'atto di intellezione è
insieme atto dell'intelletto agente e dell'intelletto possibile. L'intelletto
agente e l'intelletto possibile concorrono all'unico atto dell'intellezione con
le loro proprie operazioni (cf. S. TOMMASO D'AQUINO, De Veritate, 10, 8c).
L'intelletto possibile
conosce i contenuti che vengono resi intelligibili, cioè conoscibili,
dall'intelletto agente.
Ma l'intelletto agente, anche
se non è propriamente conoscente, è pur sempre un intelletto; in che cosa
consiste la sua intellettualità?
Io direi che consiste nell’intendere
la condizione di intelligibilità, di sensatezza, di possibilità, di
incontraddittorietà dei contenuti conoscitivi. E siccome questa condizione è il
soggetto della legge di non contraddizione, cioè l'essere, l'intelletto agente
intende l'essere.
S. Tommaso dice semplicemente
- riportando una sentenza di Averroè - che i primi princìpi sono come strumenti
dell'intelletto agente (cf. De Veritate, 10, 13). Ora, siccome i primi
princìpi sono tutti fondati sulla legge di non contraddizione e questa è fondata
sull'essere, dire che l'intelletto agente ha come strumenti i primi princìpi
equivale a dire che intende la legge di non contraddizione e, dunque, che
intende l'essere.
Si tratta però del modo
intellettivo dell'intendere e non del conoscere, perché chi conosce -
semplificando grossolanamente il linguaggio tecnico - è l'intelletto possibile e
non l'intelletto agente.
Dunque, l'intendere è un
sapere non ancora concettuale, cioè non specifico. L'intendere l'essere non è
ancora conoscere esplicitamente l'essere.
L'immagine che viene usata
per indicare l'attività dell'intelletto agente è quella della luce. Come la luce
è la condizione di visibilità dei colori e delle figure, così l'atto
dell'intelletto agente è la condizione di intelligibilità e di conoscibilità dei
contenuti della conoscenza, cioè dell'atto dell'intelletto possibile.
E come ci si rende conto
della luce perché si vedono i colori e le figure, così in ogni intelligibile ci
si rende conto della presenza dell'atto dell'intelletto agente, non come
oggettivamente dato ma come condizione di intelligibilità (cf. S.
TOMMASO D'AQUINO,
In 1 Sententiarum, d. 3, 4, 5 c.). Noi non vediamo propriamente la luce
ma ci rendiamo conto della luce vedendo i colori e le figure.
Se non ci fossero cose
visibili non per questo la luce non ci sarebbe o smetterebbe la sua funzione:
semplicemente non ci renderemmo conto della sua presenza, perché noi scorgiamo
la luce come mezzo per il quale conosciamo - o meglio - percepiamo i colori.
Allo stesso modo l'intelletto
agente è sempre in azione anche se non ci sono concetti, cioè non ci sono
oggetti di conoscenza.
L'intelletto agente è sempre
in atto secondo la sua sostanza (cf. S.
TOMMASO D'AQUINO,
In 3 De Anima, l. 1O): è il suo stesso operare, non per essenza -
evidentemente; solo Dio è tale - ma per concomitanza (cf. S.
TOMMASO D'AQUINO,
Summa Theologiae, I, 54, 1, ad 1). Altrimenti sarebbe nelle stesse
condizioni dell'intelletto possibile, che deve essere attivato, e per questo non
è per sé agente, pur essendo principio del proprio atto.
Il fatto che non sempre
conosciamo, non impedisce che sempre intendiamo. Il conoscere dipende
dall'attivazione esterna dell'intelletto possibile, cui viene offerto il
materiale intelligibile da parte dell'intelletto agente che lo astrae dai dati
sensibili.
Se non viene offerto questo
materiale, non si dà conoscenza, cioè non c'è attività da parte dell'intelletto
possibile, ma questo non esclude la continua attività d'intendere
dell'intelletto agente (cf. S.
TOMMASO D'AQUINO,
De Veritate, 10, 8, ad 11 in contr.).
Da questo punto di vista, la
luce che caratterizza per metafora l'intelletto agente è lo stesso essere:
l'intelletto agente è la condizione di intelligibilità dei contenuti conoscibili
- è la luce che li rende visibili -; è la condizione di incontraddittorietà, di
sensatezza, di possibilità, di logicità e di realizzabilità dei contenuti. Ma
questa condizione è fondamentalmente l'essere: dunque, questa luce
dell'intelletto agente coincide con l'essere.
Questo vuol appunto dire che
pensiero e essere si identificano.
D'altra parte, si deve
riconoscere che se parliamo dell'essere, che è il contenuto inteso dal
pensare, questo contenuto è anche conosciuto.
Il contenuto positivamente
indeterminato del pensare diventa specifico, quando per riflessione lo si
determina con la nozione a-specifica per eccellenza, cioè la nozione di essere o
ente, o essente. In questo modo, però, la nozione a-specifìca viene conosciuta
in modo specifico.
La nozione di ente o
essente è diversa dalla nozione di piatto; eppure il piatto è un
ente, rientra nella nozione di ente come tutte le altre nozioni o cose. Eppure
noi parliamo dell'ente come se parlassimo di una delle diverse cose specifiche
che conosciamo.
Quando mettiamo a tema
l'essere o l'ente, o essente, corriamo quindi il rischio di fraintenderlo;
soprattutto se ci affidiamo a un pensiero metafìsico maldestro.
Ma è proprio della metafìsica
trattare dell'ente in quanto ente, o dell'essere in quanto essere in modo
criticamente controllato. E se ciò avviene, con queste modalità critiche -
appunto -, la metafìsica diviene anche l'anima scientifica della riflessione più
profonda sul pensare.
S. Tommaso d'Aquino dice che
l'intelletto agente è una certa somiglianzà della verità increata che si
riverbera in noi (cf. De Veritate, 11, 1). In un certo modo, esso è. il
divino in noi, prima della manifestazione del divino soprannaturale attraverso
la grazia.
Aristotele - trattando
l'argomento dal punto di vista psicologico - dice che questo intelletto, pur
essendo nella nostra anima, viene dal di fuori e solo è divino: separato,
impassibile, eterno, immortale (cf. De Anima, 5, 430 a 10-23).
La stessa cosa va dunque
affermata del pensiero, del pensare.
Il pensare ha un'estensione
infinita quanto l'essere: solo Dio è infinito in atto. Se il nostro pensare non
si identifica assolutamente con Dio, perché pensare tutto non significa per noi
conoscere tutto - Dio invece è questa identità assoluta di pensare e conoscere,
la pura trasparenza totale e concreta, determinatissima di tutto -, esso è però
riflesso di Dio.
Riflesso comunque misterioso
come misterioso è il divino.
Esso è luce che illumina i
contenuti di conoscenza e per questo è convisibile insieme ad essi e con la loro
concomitanza: come la luce è convisibile con i colori e le figure, che invece
sono l'oggetto diretto della visione.
Ma come la luce da sola -
cioè senza nulla che possa essere illuminato - è invisibile e dunque tenebra;
così il pensare senza i contenuti della conoscenza non si comporta come luce, ma
come ombra.
Sì, il nostro pensiero, visto
in se stesso, è l'ombra di Dio.
Il pensiero è pensiero delle
cose; quando è pensiero di se stesso sembra pensiero di nulla: eppure è pensare,
sempre in atto, immortale, eterno, solo. Sembra pensiero di nulla perché il
pensiero non è nessuna cosa, ma non che sia nulla come pensare.
Per fare teologia,
discorrendo di Dio dal punto di vista di Dio, occorre prima di tutto compiere
questa riflessione sul divino in noi.
Dobbiamo immergerci in questa
solitudine di contatto con l'ombra eterna dell'eterno e incominciare a
discorrere con noi stessi come fossimo i soli o il tutto.
Il nostro primo discorso
teologico è un soliloquio sul divino! Un soliloquio ammirato e disilluso nello
stesso tempo. Ammirato per la scoperta; disilluso perché il divino non si
meraviglia, non si stupisce e coglie l'eterna uguaglianza o giustizia del tutto.
Tutto è così com'è, perché così è.
Questo soliloquio divino sul
divino è l'episteme, lo "star sopra" nel vedere o considerare; al punto
principale o culminante.
Vedere tutto dal Principio o
meglio dal punto di vista dell'Intero. Qui c'è la vera solitudine, perché
l'Intero è Uno, non si accompagna mai.
E questa solitudine è una
specie di onnipotenza: si è soli in quanto solidi: all'intero non manca
nulla, pena contraddizione.
E la solidità non contrasta
con la solidarietà.
Il solido ha tutto, è in
comunione con tutto e quindi è solidale.
E la solitudine, così intesa
- l'essere per sé, non l'allontanamento da tutti - è così anche la
con-solazione più alta, perché il solo è tale in quanto sa stare con se
stesso, presso se stesso, trovando in se stesso il proprio tesoro.
Ma il tesoro della solitudine
del divino è pur sempre una grande vertigine, perché è un vedere la profondità
del tutto dal suo stesso punto di vista.
Punto di vista eterno, come
eterno è Dio e come eterno è il tutto.
L'ente in quanto ente è
eterno; Dio è eterno; il pensiero è eterno.
Il segreto dell'universo è
nascosto nel segreto eterno dell'anima, nel suo pensare. La vita cristiana è
nascosta in questo segreto e insieme è la sua rivelazione.
Vai a
E. Severino
Che cosa
significa pensare
I distici di
Silesius
Prologo di
Giovanni
Oltre Dio
Fede teologale e vita eterna
|