Gli uomini non diventano polvere
da: E. Severino, La strada (sottotitolo:
La follia e la gioia), Rizzoli Bur,
Milano, 2008, pp. 98-104, ed. originale 1983, pp. 101-107
Che significa morire?
L’incertezza piú profonda continua ad avvolgere
ogni risposta dei mortali a questa domanda.
Non avvolge soltanto le teorie attorno alla
morte, ma lo stesso tentativo di cogliere e di esprimere il fenomeno che
tali teorie vorrebbero spiegare – il fenomeno della morte, ossia (stando
all’etimo di “fenomeno”) ciò che della morte appare, sta dinanzi visibile
e constatabile.
Come se, assistendo a una corsa di cavalli, non
solo non si sapesse quale sarà il vincente, ma non si sapesse nemmeno (pur
illudendosi di saperlo) quali sono, tra le varie figure visibili, i cavalli.
Una teoria può spiegare un evento solo se esso,
innanzitutto, appare. Ma quello che sembrerebbe il piú facile dei compiti –
cogliere ed esprimere ciò che appare – è invece tra i piú difficili.
Giacché la difficoltà non è dovuta a
un’incapacità psicologica che potrebbe esser superata mediante una
concentrazione mentale piú rigorosa e piú intensa, o una trasformazione che
renda piú razionale il contesto sociale dove si forma l’osservazione di ciò che
appare: appartiene al destino dei mortali l’incapacità di cogliere e di
esprimere ciò che appare, quindi ciò che della morte appare, il fenomeno della
morte.
Eppure, la “nostra” cultura non ha dubbi sulla
capacità di cogliere ed esprimere i tratti che la morte mostra apparendo e il
loro significato essenziale: la morte – essa dice – è annientamento;
l’annientamento di ciò che muore è il fenomeno della morte; la morte appare
come annientamento.
Ormai si ritiene che tutte le cose siano
mortali e che di tutte possa quindi apparire il loro annientarsi (e
uscire dal niente).
Anche il cristianesimo, che pure è ben lontano
dall’abbandonare tutto alla morte e afferma l’immortalità dell’anima, pensa che,
con la morte, il corpo in nihilum cedit (cosí scrive Tommaso
d’Aquino): se ne va nel niente.
Ma non siamo forse tutti convinti, anche senza
fare appello alle varie forme della cultura e basandoci semplicemente sulla
nostra esperienza, che l’annientarsi delle cose è quanto di piú visibile esiste
tra i visibili? e che l’angoscia e il dramma della vita hanno proprio qui la
loro radice, nel constatare ogni giorno e ogni momento che noi e tutto
ciò che appartiene al nostro mondo ce ne andiamo nel niente?
La legna sta bruciando. Dapprima se ne
distinguono i contorni nella luce del fuoco. Poi le forme scure del legno si
fanno sempre piú incandescenti, la fiamma si riduce e i tizzoni diventano braci.
Queste, infine, impallidiscono e diventano cenere.
L’incenerirsi di un corpo è la forma piú
radicale di ciò che per i mortali è l’annientamento della morte. Qui, in breve
tempo e sotto lo sguardo di tutti, il corpo che brucia perde ogni sua qualità.
Di esso rimane soltanto la cenere; tutto il resto è diventato niente.
La maggior esattezza con cui la scienza
descrive il fenomeno della combustione non muta la sostanza del discorso, perché
se, per il primo principio della termodinamica, con l’incenerirsi di un corpo e
addirittura di tutto il nostro pianeta, la quantità totale di energia
dell’universo non varia, tuttavia quel principio afferma semplicemente la
conservazione dell’energia, ma non delle forme in cui di volta in volta
l’energia si realizza.
Le forme – figure, aspetti, volumi, suoni,
colori e ogni altra qualità dei corpi – tutto questo, anche per quel principio
della fisica, non si conserva e diventa niente quando un corpo viene bruciato.
La cenere (col calore, il fumo) è appunto la nuova forma in cui esiste l’energia
contenuta nel corpo inceneritosi; ma la forma che lo costituiva e per la quale
esso era, ad esempio, legna, e non un animale, questa forma, anche per la
scienza, con l’incenerirsi del corpo diventa niente.
Cosí, dunque, parlano i mortali, descrivendo il
fenomeno della morte, quale si presenta nell’incenerirsi di un corpo.
Ma – nonostante sembri quella del buon senso –
è la voce della follia.
Quando si dice che qualcosa è divenuto niente,
si intende forse affermare che esso, pur essendo diventato niente, continui
tuttavia ad apparire? Ad esempio, che l’esser legna della legna trasformatasi in
cenere sia diventato niente e che esso continui ciò nonostante ad apparire (cioè
ad essere visibile, constatabile, cosí come lo era prima di diventar niente)?
Daccapo: forse che una cosa può diventar niente
e tuttavia continuare a manifestarsi nel suo essere quella cosa che essa era?
“No” risponderanno tutti: ciò che si annienta
scompare nella misura in cui si annienta. In questa misura, esso esce dal
novero delle cose che appaiono.
(A mezza voce, alcuni riconosceranno anche
questo: che nella memoria rimane sí la traccia della legna – che in questo senso
continua ad apparire anche quando è diventata cenere –, ma questa traccia,
proprio perché rimane, non è la legna che è diventata un niente. La legna
è morta, la sua traccia è viva. Non ci può essere memoria dei morti, cioè degli
annientati.) Ma se il processo dell’annientarsi è inseparabilmente legato a
quello dello scomparire – se cioè una cosa, annientandosi, esce, insieme, dal
cerchio dell’apparire (ossia dal luogo luminoso in cui stanno tutte le cose che
appaiono) – allora, per sapere che sorte è toccata a ciò che è uscito da quel
cerchio, potremo forse rivolgerci alle cose che a tale cerchio appartengono?
l’apparire di queste cose potrà forse informarci di ciò che è accaduto a quelle
altre che non stanno piú in loro compagnia?
Una analogia ci consente di chiarire il senso
di questa domanda.
Quando il sole tramonta, esce dalla volta del
cielo e scompare allo sguardo. Che ne è di esso? che sorte gli tocca quando,
sprofondando nel mare o nella terra o dietro i monti, non è piú visibile?
Queste domande ci lasciano oggi del tutto
indifferenti, anche perché la teoria copernicana assicura che il moto del sole è
apparente e che quindi il sole continua a esistere anche quando non è visibile.
Ma se volessimo rispondere a quella domanda
unicamente sulla base di ciò che appare nella volta del cielo quando essa è
stata abbandonata dal sole, che potremmo dire della sorte del sole resosi
invisibile? Che potrebbe dirci, che potrebbe attestare l’apparire della notte,
della luna, delle stelle e dei loro moti, intorno a ciò che è accaduto
dell’astro che non abita piú con loro la volta del cielo?
Nulla!
Abbandonata dal sole, la volta del cielo
tace della sorte di esso, non attesta alcunché intorno a esso.
In senso rigoroso e al di fuori di ogni
metafora, le pallide luci del crepuscolo sono la cenere del tramonto del sole.
Come il crepuscolo e gli astri notturni del
cielo non mostrano quale sorte sia toccata al sole che li ha abbandonati, cosí
la cenere e tutto ciò che appartiene al luogo in cui è avvenuto l’incenerirsi
della legna tacciono e non attestano alcunché intorno alla sorte della legna
che, se si è annientata, è dovuta anche scomparire, ha dovuto cioè abbandonare
la volta dell’apparire abitata da tutte le cose che appaiono.
E come per conoscere la sorte del sole dopo il
tramonto occorrono delle teorie, che interpretino ciò che appare e gli
attribuiscano quindi proprietà che non appaiono, cosí per conoscere la sorte
della legna, che incenerendosi è uscita dall’apparire, occorrono delle teorie,
che interpretino il fenomeno dell’incenerirsi e dello scomparire e lo
inseriscano in categorie che aggiungono, a ciò che appare, un senso che non è
attinto da ciò che appare.
Di queste teorie è supremamente dominante,
presso i mortali, quella che afferma che, incenerendosi, la legna è diventata
niente.
Si tratta di una teoria, e non della
descrizione di un fenomeno, perché se la legna, annientandosi, esce
dall’apparire – se, diventata niente, essa non appare nemmeno piú –, allora, che
essa sia diventata niente non è qualcosa che possa essere attestato
dall’apparire da cui la legna, incenerendosi, è uscita.
Non è il fenomeno dell’incenerirsi, non è
l’apparire delle cose ad attestare che cosa abbia avuto in sorte la legna
scomparendo: è la teoria suprema dei mortali che, interpretando
l’incenerirsi della legna, afferma che essa è diventata niente, le dà in sorte
il niente.
È questa suprema teoria a intendere il fenomeno
della morte come annientamento. Ed è ancora essa a non riconoscersi come teoria
e a presentare il proprio contenuto come qualcosa che appare, cioè come
osservabile, constatabile, manifesto, cioè come fenomeno.
La legna sta bruciando. Dapprima appaiono i
suoi contorni nella luce del fuoco; poi essi scompaiono e appare l’incandescenza
delle braci; a sua volta, poi, questa incandescenza scompare e appare la cenere.
La legna spenta, la legna accesa, le braci, la
cenere e il vento che la disperde si sono avvicendati nel cerchio luminoso
dell’apparire. Al subentrare di ognuno di questi eventi, il precedente esce
dall’apparire. Il cerchio dell’apparire non attesta che la legna si trasforma in
cenere: appunto perché non attesta che la legna si annienta come legna.
Per “trasformarsi”, o “diventare” cenere è infatti necessario che la legna si
annienti come legna. Ma se l’annientamento della legna non appare, non può
apparire nemmeno il suo “diventare” cenere.
All’interno di quel cerchio, la cenere non è la
sorte toccata alla legna; essa non grida, ma tace la sorte della legna. In quel
cerchio, la legna non diventa cenere, cosí come gli uomini non diventano
polvere: la cenere è il successore della legna; la polvere dell’uomo. Ma
l’annientamento di ciò che muore non appare.
Alle teorie resta dunque affidato il
compito di stabilire a quale sorte va incontro ciò che esce dal cerchio delle
cose che appaiono.
Questo risultato è decisivo.
Nei miei scritti si mostra – e ne hanno dato un
cenno anche le pagine precedenti – che la follia essenziale si esprime nella
persuasione che le cose escono e ritornano nel niente. Il mortale è appunto
questa volontà che le cose siano un oscillare tra l’essere e il niente.
Al di fuori della follia essenziale, di tutte
le cose è necessario dire che è impossibile che non siano, cioè è necessario
affermare che tutte – dalle piú umili e umbratili alle piú nobili e grandi –
tutte sono eterne. Tutte, e non solo un dio, privilegiato rispetto a esse.
Se questo discorso viene equivocato oltre un
certo limite, si può allora pensare che il vero folle è chi questo discorso
propone, giacché esso sembra smentito nel modo piú perentorio dal divenire del
mondo.
Ebbene, proprio questo si è qui incominciato a
chiarire: che se il divenire del mondo è inteso come l’annientamento delle cose,
allora il divenire non appare: l’apparire del mondo (l’“esperienza”)
non smentisce il discorso affermante l’eternità del tutto; e dunque se in
questa affermazione si volesse per forza trovare la follia, essa andrebbe
cercata altrove che nella presunta contraddizione tra questa affermazione e ciò
che resta attestato dall’apparire del mondo.
Intanto, se il divenire non appare come
annientamento, ma come l’entrare e l’uscire delle cose dal cerchio
dell’apparire, allora l’affermazione dell’eternità del tutto stabilisce la sorte
di ciò che scompare: esso continua a esistere, eterno, come un sole dopo il
tramonto.
Non solo la legna fiammeggiante, le braci, la
cenere, il vento che la disperde sono eterni astri dell’essere che si succedono
nel cerchio dell’apparire, ma anche tutte le fasi dell’albero che, “nella valle
ove fresca era la fonte / ed il giovane verde dei cespugli / giocava al fianco
delle calme rocce / e l’etere tra i rami traluceva / e quando intorno i fiori
traboccavano” (Hölderlin), hanno preceduto la legna tagliata per il fuoco.
Quando gli astri dell’essere escono dal cerchio
dell’apparire, il destino della verità li ha già raggiunti e impedisce loro di
diventare niente.
Appunto per questo essi – tutti – possono
ritornare.
(da: E. Severino, La strada. La follia e la
gioia, Rizzoli Bur,
Milano, 2008, pp. 98-104, ed. originale 1983, pp. 101-107)
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Vedi anche: Passato e verità
e Lettera a Marcello
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