Henry Corbin Pietro De Luigi on web
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Brani tratti da Henry Corbin: Corpo spirituale e Terra Celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita (Éditions Buchet / Chastel, Paris, 1979; Adelphi edizioni, Milano, 1986) Traduzione di Gabriella Bemporad
Note di copertina Quando apparve nella sua prima versione (1960), questo libro suonava come un tentativo sconcertante di collegare e articolare categorie del remoto Iran mazdeo, cifrate e ostiche, con altre dello sciismo, di cui ben poco si sapeva. Oggi si può dire di Corpo spirituale e Terra celeste che è stato un vero punto di partenza, ma non già soltanto per l’audacia della prospettiva storica. Essenziale è qui l’elaborarsi di una concezione dell’immaginazione a cui poi molti hanno attinto, per la sua grandiosità e perspicuità. Qui si traccia per la prima volta una «carta dell’Immaginale». Per intendere la novità dell’impresa, basti pensare che la parola stessa «immaginale» è stata introdotta da Corbin. E di una parola nuova c’era davvero bisogno da quando, in Occidente, «tra le percezioni sensibili e le intuizioni o le categorie dell’intelletto il luogo era rimasto vuoto». Si trattava appunto del luogo della Imaginatio vera dell’alchimia, della immaginazione attiva, di quell’«intermondo tra il sensibile e l’intelligibile» la cui «scomparsa porta con sé una catastrofe dello Spirito». Quel luogo della conoscenza, e di una conoscenza a noi preclusa, è l’«ottavo clima» dove appaiono le città mistiche di Jabalqa, Jabarsa e Hurqalya. Nessuna civiltà è stata pari a quella iranica nello sviluppare questa «geografia immaginale». Dai mirabili paesaggi, puri archetipi di una natura visionaria, sino alle pagine esaltanti di Sohravardi o di Molla Sadra, l’Iran ci ha offerto la guida più dettagliata alla «Terra di Hurqalya», «mondo attraverso cui si corporizzano gli spiriti e si spiritualizzano i corpi», luogo della realtà epifanica. Sino a questo libro di Corbin ben poco era filtrato di tali tesori – e la seconda parte dell’opera ci offre anche una doviziosa antologia di testi iranici su questi temi, per la prima volta tradotti. Ma l’effetto sovvertitore di Corpo spirituale nel suo insieme è dovuto non soltanto alla novità dei materiali. Qui assistiamo, innanzitutto, al dispiegarsi della prospettiva di Corbin. L’autore stesso la definiva «fenomenologica», in contrasto con ogni storicismo. Ma, più che a termini occidentali, occorrerebbe riferirsi, per definire il procedimento di Corbin, a quella «ermeneutica per eccellenza indicata dalla parola ta’wil, che letteralmente significa “ricondurre una cosa alla sua fonte”, al suo archetipo, alla sua realtà vera». Qui il ta’wil è al tempo stesso l’oggetto del libro e il metodo del suo autore, come anche dovrebbe diventare il percorso di ogni lettore. Così ci avvicineremo finalmente all’Albero dell’Immaginazione, di cui dice il Corano che può essere «l’Albero benedetto» o «l’Albero maledetto». «L’immaginario può essere innocuo; l’immaginale non lo è mai». La presente traduzione è condotta sul testo interamente rivisto dall’autore e pubblicato nel 1979.
Da Preludio alla seconda edizione (1978), pp. 14-19: Da molto tempo, lo ripeteremo più avanti, la filosofia occidentale, quella ‘ufficiale’, trascinata nella scia delle scienze positive, ammette soltanto due fonti del Conoscere. Vi è la percezione sensibile, che fornisce i dati empirici. E vi sono i concetti dell’intelletto, il mondo delle leggi che regolano tali dati empirici. Certo, la fenomenologia ha modificato e superato tale gnoseologia semplificatrice. Resta tuttavia il fatto che tra le percezioni sensibili e le intuizioni o le categorie dell’intelletto il luogo era rimasto vuoto. Ciò che avrebbe dovuto situarsi tra le une e le altre, e che altrove occupava questo posto mediano, vale a dire l’Immaginazione attiva, fu lasciato ai poeti. Il fatto che tale Immaginazione attiva nell’uomo (bisognerebbe dire Immaginazione agente, così come la filosofia medievale parlava di Intelligenza agente) abbia la sua funzione poetica e cognitiva propria, il fatto che cioè ci permetta di accedere a una regione e realtà dell’Essere che senza di essa ci resta chiusa e interdetta, questo una filosofia scientifica, razionale e ragionevole non poteva prenderlo in considerazione. Per essa era pacifico che l’Immaginazione emette solo dell’immaginario, vale a dire dell’irreale, del mitico, del meraviglioso, della finzione, ecc. A questa stregua, non resta speranza alcuna di ritrovare la realtà sui generis di un mondo soprasensibile, che non è né il mondo empirico dei sensi né il mondo astratto dell’intelletto. […] La chiave di questo mondo come mondo reale noi l’abbiamo cercata a lungo, da giovane filosofo. Ed è proprio in Iran che dovevamo trovarla, in due epoche del mondo spirituale iranico [Corbin la trovò nell’Iran mazdeo, con l'Avesta, e nell’Iran sciita, con la filosofia orientale di Avicenna, Sohrawardi, ibn ‘Arabi, ecc.] […] Ciò che caratterizza la posizione di coloro che sono chiamati i “Platonici di Persia”, gli Ishràqìyùn del ceppo spirituale di Sohravardì (XII secolo), è uno schema dei mondi che contrasta radicalmente col dualismo or ora menzionato. Contrasto dovuto essenzialmente al fatto che la loro gnoseologia, estranea a tale dualismo, fa posto, come a necessaria potenza mediatrice, alla potenza immaginativa, quella Immaginazione agente che è “immaginatrice”. Essa è a buon diritto una facoltà cognitiva. La sua funzione mediatrice è di farci conoscere quella regione dell’Essere che, senza tale mediazione, resterebbe regione interdetta, e la cui scomparsa porta con sé una catastrofe dello Spirito […] L’universo rispetto al quale è ordinata e a cui permette di accedere è un universo mediano e mediatore, un intermondo tra il sensibile e l’intelligibile, intermondo senza il quale l’articolazione tra il sensibile e l’intelligibile è definitivamente bloccata. Allora gli pseudodilemmi si agitano nell’ombra, perché è stata loro chiusa la via d’uscita. […] I nostri autori ripetono instancabilmente che ci sono tre mondi: 1) il mondo intelligibile puro (‘àlam ‘aqlì), chiamato teosoficamente Jabarùt o mondo delle pure Intelligenze cherubiniche; 2) il mondo immaginale (‘àlam mithàlì), chiamato teosoficamente Malakùt, mondo dell’Anima e delle anime; 3) il mondo sensibile (‘àlam hissì) che è l’“ambito” (molk) delle cose materiali. Correlativamente, le forme dell’Essere e del Conoscere proprie ripsttivamente di ciascuno dei tre mondi sono chiamate tecnicamente. 1) Forme intelligibili […]; Forme immaginali […]; 3) Forme sensibili […] Quanto alla funzione del mundus imaginalis e delle Forme immaginali, essa è definita dalla loro posizione mediana […] Essa dematerializza le Forme sensibili, per l’altro “immaginalizza” le Forme intelligibili a cui dà figura e dimensione. Il mondo immaginale per un verso simboleggia con le Forme sensibili, per l’altro con le Forme intelligibili. E’ tale posizione mediana che subito impone alla potenza immaginativa una disciplina impensabile là dove essa è degradata a “fantasia”, che emette soltanto dell’immaginario, dell’irreale, ed è capace di ogni intemperanza. Si tratta proprio di quella differenza, che già Paracelo conosceva e distingueva molto bene, tra l’Imaginatio vera (la vera Immaginazione, l’Immaginazione nel senso vero) e la Phantesey. Perché quella non degeneri in questa, è necessaria proprio tale disciplina che resta inconcepibile se la potenza immaginativa, l’Immaginazione attiva, è esiliata, dallo schema dell’Essere e del Conoscere. Tale disciplina non potrebbe concernere una Immaginazione ridotta a far la parte della folle du logis, ma è inerente a una facoltà mediana e mediatrice la cui ambiguità consiste nel fatto che può mettersi al servizio dell’estimativa, cioè delle percezioni e dei giudizi empirici, o al contrario al servizio di quell’intelletto il cui grado supremo è chiamato dai nostri filosofi intellectus santcus (‘aql qodsì, intelletto santo), illuminato dall’Intelligenza agente (‘Aql fa‘‘àl), che è l’Angelo Spirito Santo. L’importanza del ruolo dell’Immaginazione è ben specificata dai nostri filosofi, quando affermano che essa può essere “l’Albero benedetto”, o al contrario “l’Albero maledetto”, di cui parla il Corano, vale a dire Angelo in potenza o Demonio in potenza. L’immaginario può essere innocuo; l’immaginale non lo è mai. […] Ci troviamo infatti di fronte a filosofi che rifiutano tanto una filosofia quanto una teologia prive di teofania. Sohravardì e con lui tutti gli Ishràqìyùn hanno sempre considerato il “perfetto saggio” come quel saggio che riunisce in sé allo stesso tempo il più alto sapere filosofico e l’esperienza mistica modellata sull’esperienza visionaria del Profeta, la notte del Mi‘ràj. Ora, l’organo delle visioni, quale che sia il loro grado, nei filosofi come nei profeti, non è l’intelletto né gli occhi di carne, ma quegli “occhi di fuoco” dell’Imaginatio vera di cui il Roveto ardente è per Sohravardì la tipificazione. Nella Forma sensibile, allora, la Forma immaginale stessa è subito e allo stesso tempo, la Forma percepita e l’organo della percezione visionaria. Le forme teofaniche sono per essenza Forme immaginali. Ciò significa che il mundus imaginalis è il luogo, e di conseguenza il mondo in cui “hanno luogo” e il loro “aver luogo”, non solo delle visioni dei profeti, le visioni dei mistici, gli accadimenti visionari attraverso cui passa ogni anima umana al suo exitus da questo mondo, gli accadimenti della Resurrezione minore e della Resurrezione maggiore, ma anche le gesta delle epopee eroiche e delle epopee mistiche, gli atti simbolici di tutti i rituali d’iniziazione, le liturgie in genere con i loro simboli, la “composizione di luogo” nei diversi metodi d’orazione, le filiazioni spirituali la cui autenticità esula dalla documentazione degli archivi, come pure il processo esoterico dell’Operazione alchemica, a proposito del quale il primo Imàm degli sciiti ha potuto dire: “L’alchimia è sorella della profezia”. Infine, le “biografie d’Arcangeli” sono essenzialmente storia immaginale, poiché tutto avviene di fatto nel Malakùt. Allora, se si priva tutto questo del suo proprio luogo che è il mundus imaginalis e del suo proprio organo di percezione che è l’Immaginazione attiva, nulla di tutto questo ha “più un luogo” e per conseguenza “ha più luogo”. […] Il profeta non è un indovino del futuro, ma il portavoce dell’Invisibile e degli Invisibili, ed è questo che dà il suo senso a una “filosofia profetica” (hikmat nabawìya). La filosofia profetica è allora na “filosofia narrativa”, sciolta dal dilemma che assilla coloro che si chiedono: è mito, oppure è storia? In altre parole: irreale o reale? Fittizio o vero? La filosofia profetica è la liberazione da questo pseudodilemma. Gli accadimenti che essa descrive non sono né mito né storia nel senso comune di tali parole. E’ la storia del Malakùt, ciò che noi denominiamo storia immaginale, così come i paesi e i luoghi di questa storia compongono una geografia immaginale, quella della “Terra celeste”. L’accesso a questa storia immaginale ci viene aperto da quella ermeneutica per eccellenza indicata dalla parola ta’wìl, che letteralmente significa “ricondure una cosa alla sua fonte”, al suo archetipo, alla sua realtà vera. Sciiti duodecimani e sciiti ismailiti vi hanno eccelso, perché il ta’wìl è la molla stessa del loro essoterismo quale “settimo giorno” che porta a compimento i sei giorni della Creazione. Al semplice lettore essoterico ciò che appare come il senso vero è la narrazione letterale. Quanto gli viene proposto come senso spirituale gli appare come senso metaforico, “allegoria” che egli confonde con simbolo. Per l’esoterico è l’inverso: il cosiddetto senso letterale non è di fatto che una metafora (majàz). Il senso vero (haqìqat) è l’accadimento che tale metafora occulta. Come per i Cabalisti i veri accadimenti sono le relazioni terrene tra le dieci Sefiroth, celate sotto le narrazioni degli accadimenti esterni riferiti dalla Bibbia, così per gli esoterici sciiti i due terzi del Corano vanno letti nel loro senso nascosto e vero (il loro haqìqat), come narrazione del dramma che ha luogo tra i santi Imàm e i loro antagonisti prima della creazione di questo mondo. Ma non è allegoria; sono gli accadimenti veri. Hegel diceva che la filosofia consiste nel mettere il mondo a rovescio. Diciamo piuttosto che questo mondo è fin d’ora a rovescio. Il ta’wìl e la filosofia profetica consistono nel rimetterlo diritto. […] Da Prologo (1960), pp. 29-32: Fede e miscredenza si rinchiudevano nel dilemma: storia oppure mito. Sarebbe stato necessario rendersi conto che il primo e supremo miracolo è l’irruzione di un altro mondo nella nostra conoscenza, irruzione che squarcia la trama delle nostre categorie e delle loro necessità, delle nostre evidenze e delle loro norme. […] E’ quest’altro mondo, con il modo di conoscenza che esso implica, che vedremo qui meditato instancabilmente nel corso dei secoli come “mondo di Hùrqalyà”. E’ la “Terra delle visioni”, la Terra che conferisce la loro verità alle appercezioni visionarie, è quel mondo attraverso cui si compie la resurrezione; questo è ciò che riecheggerà in tutti i nostri autori. E’ infatti il mondo in cui “hanno luogo” gli accadimenti spirituali reali, ma reali di una realtà che non è quella del mondo fisico [in questo come in altri punti, contrariamente a Corbin, non arrischierei troppo il giudizio: noi non sappiamo veramente e in definitiva cosa sia il mondo “fisico”], né quella che registra la cronaca e con cui si ‘fa storia’, poiché qui l’accadimento trascende ogni materializzazione storica. E’ un mondo ‘esteriore’, e che tuttavia non è il mondo fisico, un mondo che ci insegna che si può uscire dallo spazio sensibile senza per ciò uscire dall’estensione, e che bisogna uscire dal tempo omogeneo della cronologia per entrare nel tempo qualitativo che è la storia dell’anima. E’ infine il mondo in cui si percepisce il senso spirituale dei testi e degli esseri, vale a dire la loro dimensione soprasensibile, quel senso che ci appare quasi sempre come una estrapolazione arbitraria, poiché lo confondiamo con l’allegoria. La “Terra di Hùrqalyà” è inaccessibile alle astrazioni razionali come alle materializzazioni empiriche; essa è il luogo dove spirito e corpo sono una cosa sola, il luogo dove lo spirito prende corpo come caro spiritualis, “corporeità spirituale”. […] Essa non è percepibile con gli occhi di carne del corpo perituro, ma con i sensi del corpo spirituale o corpo sottile, quello che i nostri autori chiamano i “sensi d’oltremondo”, i “sensi hùrqalyàvì”. […] “Insomma, tutta la fenomenologia dello spirito si compie in Hùrqalyà?”. Sembra proprio che avvenga qualcosa del genere. […] I nostri autori ci suggeriscono che, se il passato fosse stato veramente ciò che noi crediamo che sia, compiuto e chiuso, esso non sarebbe materia di tante veementi discussioni. Essi ci suggeriscono che tutti i nostri atti di comprendere sono altrettanti ricominciamenti, iterazioni di accadimenti sempre incompiuti. Ciascuno di noi, volens nolens, è l’autore di accadimenti in “Hùrqalyà”, sia che essi falliscano, sia che fruttifichino nel suo paradiso o nel suo inferno. Crediamo di contemplare qualcosa di passato e di immutabile, mentre consumiamo il nostro proprio futuro. I nostri autori ci mostreranno che tutta una regione di Hùrqalyà è popolata, post mortem, dai nostri imperativi e dai nostri desideri, vale a dire da ciò che costituisce il senso stesso dei nostri atti di comprendere così come dei nostri comportamenti. Dopotutto, la sottostante metafisica è quella di un incessante ricorso della Creazione (tajaddod); non è una metafisica né dell’ens né dell’esse, ma dell’Esto, dell’essere all’imperativo. Ma l’accadimento è messo o rimesso all’imperativo solo perché è esso stesso la forma ierativa dell’essere attraverso il quale si trova promosso alla realtà di accadimento. Forse si intravederà tutta la gravità dell’accadimento spirituale e del senso spirituale degli accadimenti “percepiti in Hùrqalyà”, quando finalmente la coscienza ritroverà il Donatore delle cose date. Tutto è singolare, dicono i nostri autori, quando si approda a questa Terra dove l’Impossibile è realtà. Poiché tutte le nostre costruzioni mentali, tutti i nostri imperativi e tutti i nostri desideri, fino al nostro amore più consustanziale al nostro essere, tutto non sarebbe che metafora senza l’intermondo di Hùrqalyà, un mondo, in un certo senso, dove i nostri simboli sono presi alla lettera. Da Capitolo 2. La Terra mistica di Hùrqalyà, pp. 76-119: In realtà i nostri Spirituali non fanno del sincretismo, così come non tentano una conciliazione dialettica, e questo perché dispongono di un modo di percezione diverso da quello a cui ci ha ridotti la nostra coscienza storica unidimensionale. Essi dispongono, in primo luogo, di un mondo a diversi piani […] S’incontrerà l’espressione di uno dei nostri autori: “Vedere o percepire le cose in Hùrqalyà”. Vi è qui un’allusione all’uso della facoltà di percezione adeguata, quella di cui, in secondo luogo, dispongono i nostri Spirituali. E’ questo uso che viene designato col termine tecnico ta’wìl, che etimologicamente significa “ricondurre” i dati alla loro fonte, al loro archetipo, al loro donatore. Per far questo bisogna recuperarli a ciascuno dei gradi dell’essere o piani attraverso i quali essi hanno dovuto “discendere” per giungere al modo d’essere corrispondente al piano d’evidenza della nostra coscienza ordinaria. Tale operazione deve far simboleggiare questi piani gli uni con gli altri. Perciò il ta’wìl è per eccellenza l’ermeneutica dei simboli, l’exegesis, il rilevamento dei significati spirituali nascosti. Senza il ta’wìl non ci sarebbe né la “teosofia orientale” di Sohravardì, né, in generale, quel fenomeno spirituale che trasfigura il significato dell’Islam: la gnosi sciita. E viceversa, senza il mondo di Hùrqalya, oggetto del nostro studio, vale a dire senza il mundus imaginalis, il mondo delle Forme immaginali, dove opera la percezione immaginativa, in grado di penetrare il significato nascosto perché trasmuta in simboli i dati materiali della storia esterna, insomma, senza la “storia immaginale”, i cui accadimenti hanno luogo in Hùrqalyà, non sarebbe possibile un ta’wìl. Il ta’wìl presuppone la sovrapposizione di mondi e d’intermondi, quale fondamento correlativo della pluralità dei significati d’uno stesso testo. […] Lo Shayk Ahmad Ahsà’ì (m. 1826) precisa a sua volta la topografia immaginale della Terra di Hùrqalyà. Essa principia, dice, nella superficie convessa della nona Sfera - una maniera simbolica e precisa d’indicare che tale Terra non è più compresa nelle dimensioni del nostro spazio cosmico fisico, poiché al di là della superficie della Sfera che l’avvolge, Sfera che nel sistema tolemaico del mondo è la Sfera limite che definisce le direzioni dello spazio, la Sfera delle Sfere, non vi sono più né direzione né orientazione possibili nello spazio fisico. […] E’ perciò che, come il mondo del barzakh, questa Terra-limite principia, cioè ha il suo “in basso” al limite, alla roccia di smeraldo o Sinai mistico, chiave di volta celeste, il “polo”, così Shayk Ahmad situa Hùrqalyà contemporaneamente alla “cima del Tempo” e al grado inferiore o primo grado dell’eternità (più esattamente l’Aevum o Tempo eterno). E’ infine un intermondo che limita e congiunge il tempo e l’eterno, lo spaziale e il transpaziale, così come la sua materia immateriale e la sua Terra celeste sono anch’esse il segno della sua coincidentia oppositorum, la congiunzione del sensibile e dell’intelligibile nel puro spazio del mundus imaginalis. […] E’ invece l’idea di teofania, di epifania divina che domina il suo modo di percezione, ed è per questo che ci viene sempre proposto il paragone dello specchio. […] Ora, è questa attività psichica assoluta, dice lo shaykh, che viene chiamata “mondo”, il quale preso come tale, è insieme al di sotto dell’Anima di cui è l’attività, e al di sopra delle materie terrestri accidentali dove lo trovano le facoltà sensibili di percezione. Il mondo come attività psichica assoluta è un barzakh, una fascia di mezzo. E questo significa: come la sostanza materiale e la forma dello specchio non sono né la materia né la forma dell’Immagine che vi si riflette e che vi è percepita, ma semplicemente il luogo privilegiato dove questa Immagine si epifanizza, così le materie sensibili non sono che il veicolo (markab) o meglio il luogo epifanico per le forme prodotte dall’attività assoluta dell’anima. […] Per cogliere l’Immagine nella sua realtà assoluta, cioè sciolta, staccata dallo specchio sensibile in cui si riflette, ci vuole indubbiamente ciò che lo shaykh chiama occhio d’oltremondo, vale a dire un organo di visione che faccia esso stesso parte dell’attività assoluta dell’anima, e che corrisponda alla nostra Imaginatio vera. Notiamo bene che questo non è conoscere le cose nella loro idea astratta, nel loro concetto filosofico, ma sotto i tratti perfettamente individuati della loro Immagine meditata, o piuttosto pre-meditata dall’anima, cioè la loro Forma immaginale. E’ per questo che in tale mondo intermedio ci sono Cieli e Terre, animali, piante e minerali, città, borghi e foreste. Ma questo vuol proprio dire che se altrettante cose corrispondenti sono visibili e viste in questo nostro mondo, su questa Terra terrestre, è che infine, ciò che noi chiamiamo physis e fisico è solo il riflesso del mondo dell’Anima; non vi è fisica pura, ma sempre la fisica di una certa attività psichica. Prenderne coscienza è allora vedere il mondo dell’Anima, è vedere tutte le cose così come sono nella Terra di Hùrqalyà, la Terra delle città di smeraldo; è la visio smaragdina che è l’assurgere e il risorgere del mondo dell’Anima. Allora quella realtà che la coscienza comune conferisce alle cose e agli accadimenti fisici come a realtà autonome, dimostra di essere di fatto la realtà visionaria dell’anima. […] Il modo di visione della Terra è il modo stesso della visione dell’anima, la visione in cui essa si percepisce; può essere il suo paradiso e può essere il suo inferno. L’“ottavo clima” è il clima dell’anima, ed è ciò che il grande teosofo Ibn ‘Arabì (m. 1240) ci dice con un racconto mitico di cui riportiamo qui solo alcuni tratti sorprendenti. Dell’argilla di cui fu creato Adamo, dice Ibn ‘Arabì, o piuttosto del lievito di quella argilla, ne restò un sovrappiù. E’ da questo sovrappiù che fu creata una Terra il cui nome arabo si può tradurre tanto “Terra di Realtà vera” quanto “Terra di Verità reale”. E’ una Terra immensa, che contiene essa stessa dei Cieli e delle Terre, dei Paradisi e degli Inferni: Un gran numero di cose di cui è stata dimostrata razionalmente e validamente l’impossibilità per il nostro mondo, esistono tuttavia in quella Terra, che è la prateria della cui vista i mistici teosofi non si saziano mai. Ed ecco la precisazione decisiva: nell’insieme degli universi di questa Terra di Verità, Dio ha creato per ogni anima un universo corrispondente a tale anima: Allorché il mistico contempla tale universo, è se stesso (nafs, la sua Anima) ch’egli vi contempla. L’Imago Terrae è dunque l’immagine stessa dell’anima, attraverso cui essa contempla se stessa, le sue energie e i suoi poteri, le sue speranze e i suoi timori. E’ perciò che questa Terra di Verità è il luogo dove realmente esistono tutte le Immagini che l’anima proietta sul suo orizzonte e che le annunciano la presenza di quello o questo dei suoi stati. Le obiezioni razionali o razionaliste non possono prevalere su di essa. Questa Terra di Verità è la Terra dove fioriscono i simboli contro i quali naufraga l’intelletto razionale, che generalmente crede che nel momento stesso in cui ‘spiega’ un simbolo lo fa scomparire rendendolo superfluo. No, in questa Terra di Verità esiste tutto l’universo incantato dell’anima, perché l’anima vi è a ‘casa sua’ e perché le sue Forme immaginali le sono diventate trasparenti, ma allo stesso tempo le restano necessarie perché appunto ne traspaia il loro esoterico (bàtin). […] Anche per questo quella Terra è il luogo dei Racconti visionari, delle orazioni dialogiche; essa non è, dice Ibn ‘Arabì, il luogo degli annientamenti mistici, degli abissi della teologia negativa, ma il luogo delle teofanie, delle Epifanie divine (tajallìyat ilàhìya), che non volatilizzano né strappano l’anima alla sua propria visione, al contrario la fanno essere finalmente con se stessa e a casa sua. […] A differenza del nostro mondo terrestre dove i nostri stati interiori restano invisibili e dove l’apparenza dei nostri atti si limita alla loro apparenza esteriore constatabile, nella terra celeste questi stessi atti prendono un’altra forma, e gli stati interiori proiettano le loro forme visibili. Taluni prendono la forma di palazzi, altri la forma di Hùrì, altri ancora la forma di fiori, di piante, d’alberi, d’animali, di giardini, di corsi d’acqua viva, ecc. Tutte queste forme e figure sono viste e reali “al di fuori”, ma sono allo stesso tempo degli attributi e dei modi d’essere dell’uomo. Le loro trasfigurazioni sono quelle dell’uomo, ed esse compongono il suo ambiente, la sua Terra celeste. Per questo si può dire: “L’atto è esso stesso la sua retribuzione, e la retribuzione è l’atto stesso”. […] A questa tesi fondamentale fa eco questa proposizione shaykhita: “Il paradiso dello gnostico fedele è il suo corpo stesso, e l’inferno dell’uomo senza fede né gnosi è il suo corpo stesso”. O anche questa, che condensa il frutto delle meditazioni di Shaykh Ahmad sul “corpo di diamante”: “Ogni individuo resuscita sotto la stessa forma che la sua Operatio (nel senso alchemico della parola) ha fissato nel fondo segreto (esoterico) di lui stesso”. Si può così comprendere come l’idea del corpo celeste o del corpo di risurrezione esprima l’idea dell’essere umano nella sua totalità, homo integer. Rappresentando la persona umana allo stato trasfigurato, esso è ormai ben di più che l’organo fisico della soggettività personale che si oppone al mondo, poiché, essendo il suo Paradiso, esso è il “suo” mondo, il suo “vero mondo”, cioè non una realtà estranea e opaca, ma trasparenza, immediata presenza di se stesso a se stesso. […] Ora abbiamo appreso che lo sbocciare del corpo spirituale, che è risveglio e nascita dell’Io celeste, si compie con una meditazione che trasfigura la Terra in Terra celeste, perché è viceversa detto che “l’argilla di ogni gnostico fedele è stata prelevata dalla Terra del suo Paradiso”. Forse allora noi presentiamo non più solo che cosa è la Terra celeste, ma chi è la Terra celeste. Che vuol dire tutto questo per noi, oggi? Null’altro che quello stesso cui noi andiamo incontro, ciò che configuriamo, ciascuno di noi, a immagine della nostra propria sostanza. L’abbiamo trovato espresso in linguaggi insieme lontani e vicini, in contesti molto antichi quanto moderni (siamo andati dal mazdeismo allo shykhismo). E’ probabile che le esperienze degli Spirituali dell’Iran risveglino per ciascuno di noi dei confronti con certi fatti spirituali peraltro conosciuti. Vorrei ricordare qui le parole estreme pronunciate nei suoi ultimi istanti dal grande musicista Richard Strauss: “Cinquant’anni fa” poté dire “scrivevo Morte e Trasfigurazione (Tod un Verklärung)”. Poi, dopo un silenzio: “Non mi ero sbagliato. E’ proprio questo”.
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