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Fiamme multiculturali (editoriale de "Il Foglio", 5/11/2005)

Ottavo giorno di “guerra civile” nelle periferie di Parigi. Spari contro la polizia. Agguato incendiario a un bus, feriti. 78 arresti. C’è qualcosa di simile in Danimarca. “Polarizzazioni etnico-religiose” quasi fuori controllo

Parigi. “No go areas”, aree interdette. Di aree interdette si sente parlare continuamente in Iraq, sono quelle in cui le pattuglie di soldati hanno paura a entrare. Ci sono anche in Francia. Già tre anni fa, sul Figaro del 1 febbraio 2002, Lucienne Bui Trong, criminologa che lavora per il Renseignements Generaux del governo francese – una sorta di via di mezzo tra l’Fbi e i servizi segreti – si lamentava che il sistema di sorveglianza da lei creato per tenere sott’occhio le “no go areas”, le zone turbolente a prevalenza islamica nelle città francesi, era stato smantellato dal governo. Scriveva: “Da 106 punti caldi nel 1991, siamo passati alle 818 aree sensibili del 1999, su tutto il territorio nazionale”. Bui Trong, di origini vietnamite, non era sospettabile di scatenare allarmi contro l’immigrazione francese per fini politici; si limitava a compilare clinicamente i suoi rapporti. I termini che usava, “aree sensibili”, sono eufemismi politicamente corretti per indicare quelle zone dove qualsiasi cosa richiami le istituzioni occidentali (il furgone delle poste, i pompieri, i fattorini delle consegne, e naturalmente i poliziotti) è oggetto di agguati con bottiglie incendiarie e pietre, e dove di routine sono sequestrate armi contrabbandate dalle zone musulmane dell’ex Jugoslavia. Secondo altri dati diffusi dal Rg, quest’anno nelle banlieue sono già state incendiate 28 mila auto, ci sono stati quattromila atti di violenza contro pompieri e ambulanze, auto della polizia attaccate a pietrate in novemila occasioni.
I dati statistici di Bui Trong sono rimasti fermi al 2002, ma è facile immaginare che nel frattempo le zone a rischio non siano scomparse. Il governo francese, tre anni fa, smise di chiedere statistiche di questo tipo. Ora, “c’è una guerra civile in corso – dice Michel Tooris, ufficiale di polizia e portavoce del sindacato Action Police Cftc – non riusciremo a far fronte alla situazione ancora per molto. I miei colleghi non hanno né l’equipaggiamento, né la preparazione per i combattimenti nelle strade”.

Il bilancio della notte è di 519 auto bruciate
Giovedì, all’ottavo giorno consecutivo di rivolta delle periferie, il tono del prefetto di Parigi in conferenza stampa era calmo e rassegnato come se stesse parlando delle previsioni meteo: “incendi sporadici” a una ventina di cassonetti e veicoli sono stati segnalati in serata, principalmente nel nord del dipartimento, ma “a partire dalle 21 il fenomeno si è propagato a est e sud della Seine Saint –Denise”. La situazione “è nettamente più calma di ieri sera, non ci sono stati grandi assembramenti”, dicono al ministero dell’Interno francese. Secondo la polizia, gli scontri diretti sono stati leggermente meno delle notti precedenti. Il bilancio della “notte tranquilla” è di 519 auto bruciate nella sola Ile de France, la regione della capitale, contro le 315 della notte precedente, a un ritmo che fa impallidire i fasti dei piromani romani. Nel corso delle violenze che stanno devastando i sobborghi di periferia, 78 persone sono state arrestate. Nel dipartimento di Yvelines, dove centinaia di agenti in tenuta antisommossa sono stati spiegati per tentare di contenere i rivoltosi, sono stati bruciati 27 autobus nella loro rimessa. Ad Aulnay-sous-Boise è andato a fuoco un deposito di moquette di 15 mila metri quadri. Nei dipartimenti di L’Essonne e Val d’Oise sono stati dati alle fiamme scuole, stazioni di polizia e uffici governativi. La gendarmeria in alcuni casi è stata accolta a colpi d’arma da fuoco, come testimoniano i fori lasciati dai proiettili su un’auto delle forze dell’ordine che pattugliava una delle banlieue di Parigi. Una fonte di polizia racconta di un autobus di linea “caduto in un agguato” giovedì sera. Secondo la procura di Bobigny, che si basa sulle dichiarazioni del conducente, latte di benzina in fiamme piazzate sulla strada hanno costretto il veicolo ad arrestarsi. Dei giovani hanno scagliato una bottiglia Molotov dentro l’autobus. A questo punto il conducente ha chiesto a tutti i passeggeri di scendere, ma una donna di 56 anni, disabile, non c’è riuscita. Un giovane l’avrebbe allora cosparsa di benzina, mentre altri avrebbero lanciato dentro uno straccio in fiamme. Il conducente, bruciandosi una mano, è riuscito a estrarre la donna dalle fiamme: è stata ricoverata d’urgenza al centro grandi ustionati di un ospedale parigino. La polizia non ha proceduto ad alcun arresto, perché “i giovani avevano il volto coperto con le sciarpe, e pertanto sarà difficile una loro identificazione”.
Se e quando tornerà la calma, non sarà merito della polizia, che ha perso il controllo del territorio, né della linea dura del governo, che a questo punto non è sembrata che complicare irrimediabilmente le cose. Le violenze dei figli degli immigrati nordafricani, presumibilmente, si spegneranno da sole, come i roghi delle auto che i pompieri non osano avvicinare per paura delle pietre e delle bottiglie volanti. Il merito andrà invece a “les grand fréres”, i loro fratelli maggiori, quindi i religiosi, gli assistenti sociali, gli allenatori delle squadrette di calcio locali e tutti quelli che di notte sono usciti in strada per tentare di riportare alla ragione i rivoltosi, che da parte loro rifiutano di parlare con insegnanti e polizia visti come “strumento dell’oppressione della maggioranza bianca”. Qui, però, è saltato fuori il dato spaventoso. Ancora non si è capito se le violenze abbiano avuto come combustibile anche l’islam, la religione di Stato delle banlieue, ma a placare la furia dei ragazzi sono stati proprio gli imam. E’ stata la vista dei barbuti che esortavano alla calma, con successo, “in nome dell’islam”, a scatenare il dibattito politico. La mediazione dei “fratelli maggiori”, che fermano gli attacchi gridando “Allah è grande”, è vista come uno dei segnali della capitolazione dell’Autorità e del monopolio della forza. Il ministro dell’Interno, Nicolas Sarkozy, si è dovuto difendere dall’accusa di aver permesso che si formassero squadre di sicurezza musulmane. “Lavoriamo assieme a questi mediatori nelle periferie”, ha risposto laconico in un’intervista radiofonica. Dalil Boubakeur, capo del Consiglio musulmano di Francia, ha spiegato che “autorità non ufficiali, come l’imam e i ‘fratelli maggiori’, sono un fatto normale nella vita dei musulmani di periferia”.

La Francia sta diventando il nuovo Libano
Che cosa ha innescato le rivolte? Tutti i resoconti insistono unanimi sul degrado economico, come motivo a lungo represso e infine scatenante delle violenze devastatrici. La rivolta sarebbe quella dei sobborghi poveri, afflitti da disoccupazione e riconoscimenti negati, contro quelli ricchi. Lo schema, però, è troppo stretto. Non spiega per quale motivo le violenze scoppiano in paesi che si sono sempre fatti vanto della loro politica d’accettazione degli immigrati, che hanno un welfare evoluto e generoso, che offrono solide garanzie civili a tutti e hanno acuti sensi di colpa culturali per chi viene da fuori.
Perché scoppiano rivolte in Danimarca, dove alcuni quartieri della cittadina di Arson in questi giorni sono messi a ferro e fuoco da bande in tutto e per tutto simili a quelle delle banlieue – questa è la nostra zona, dicono, qua comandiamo noi, la polizia deve starne fuori – perché in Olanda, il paradiso del multiculturalismo, la folla inferocita dei marocchini sputa sul murale “non uccidere” dedicato al regista sgozzato, Theo van Gogh, e i teppisti picchiano suo figlio? Perché altre comunità d’immigrati, altrettanto ostacolate nell’ascesa sociale, come quella cinese, o latinoamericana, non bruciano le ambulanze? Fredric Encel, professore di relazioni internazionali alla prestigiosa Ecole Nationale d’Administration di Parigi, anche lui al di fuori dei pregiudizi di parte della politica francese, dice che la Francia sta diventando un nuovo Libano. Soltanto pochi anni la separano da spaccature irrisolvibili all’interno della società, a causa di “polarizzazioni etnico-religiose”. Cita le violenze dello scorso marzo, quando una manifestazione di piazza degli studenti francesi, una specie di protesta anti Moratti alla parigina, fu aggredita da giovani di colore e arabi – almeno mille, secondo le stime della polizia – che picchiarono e rapinarono “gli studentelli”. I professori di sinistra e anche il Monde, non millantatori xenofobi, denunciarono choccati le violenze gratuite contro i “piccoli bianchi codardi”.
Negli anni sono stati stipulati una serie di accordi tra Lega araba e paesi dell’Unione europea per “non costringere in nessun modo i nuovi arrivati ad adattarsi ai costumi dei paesi ospiti”. Viceversa, il simposio di Amburgo del 1983, per fare soltanto un esempio, raccomandava che gli europei promuovessero “in modo adeguato la cultura degli immigrati, anche a scuola e con canali di comunicazione nella loro lingua”.
Chi arriva in Europa provenendo da un paese musulmano è incoraggiato all’isolamento, autoimposto o favorito dal contesto, delle comunità islamiche, che tentano tutte di conservare lo stesso atteggiamento nei confronti del mondo esterno. La Lega araba europea, un’associazione di difesa dei musulmani operativa in Belgio e in Olanda, dichiara di credere nella “società multiculturale come a un modello politico e sociale dove culture differenti coesistono con diritti uguali sotto la stessa legge”. Respingono con sdegno l’idea di un’assimilazione o integrazione nella società europea: “Non vogliamo essere assimilati, o diventare una specie di via di mezzo. Vogliamo mantenere la nostra identità, insegnare ai nostri bambini la lingua e la storia araba e la fede islamica. E resisteremo a qualsiasi tentativo di strapparci il nostro diritto alla nostra identità culturale e religiosa”. Il fondatore dell’organizzazione, Dyab Abu Jahjah, arrestato nel novembre 2002 con l’accusa di aver incitato alla rivolta i musulmani della cittadina belga di Antwerp – “la lega sta cercando di terrorizzare la città”, dichiarò all’epoca il premier Guy Verhofstadt – diceva che “l’assimilazione è uno stupro culturale. Vuol dire rinunciare alla propria identità, per diventare come tutti gli altri”.

(05/11/2005)

 

Intervista a V. S. Naipaul (Il Corriere del Ticino, 30/06/1999)

di Leda Betti

Vidiadhur Surajprasad Naipaul - ma lui si fa chiamare semplicemente V. S. Naipaul - è uno scrittore ormai di fama internazionale. Nato a Trinidad, ma solo per caso, è di origine indiana e vive e lavora a Londra dal 1950. Da sempre candidato al Nobel per la letteratura, che non ottiene mai forse per la sua identità "ibrida" - non si considera né indiano né inglese, è un figlio del Terzo Mondo ma il suo pensiero è occidentale - di recente ha ritirato il premio "Una vita per la letteratura" conferitogli dal Grinzane Cavour: preceduto da una leggenda di individuo scontroso con i giornalisti, dà piuttosto l'impressione, nell'intervista che mi ha concessa in quell'occasione, di un uomo che parla del suo mestiere di scrittore e delle sue idee con cautela, forse nel timore di essere frainteso.

Servizio di LEDA BETTI

Artefice di uno stile letterario collocabile tra il romanzo storico e l'autobiografia, Naipaul ha pubblicato ultimamente Beyond Belief (Oltre il credo, Little Brown, 1998 [titolo italiano: Fedeli a oltranza, Adelphi, 2001]), dedicato al suo secondo viaggio tra i popoli di religione islamica da lui già visitati all'epoca della Rivoluzione khomeinista del 1979: non solo l'Iran, ma anche il Pakistan, parte dell'Indonesia e la Malesia (dopo il suo primo viaggio era uscito, nel 1981, Among Believers, Tra credenti). Fin dai suoi primi racconti, The mistic masseur del 1957 e The suffrage of Elvira del 1958, V. S. Naipaul ha sempre affrontato temi "caldi", quali quelli del cosmopolitismo e dell'appartenenza, col sostegno di una tecnica narrativa che attraverso lo scambio di ruoli - ad esempio tra colonizzati e colonizzatori - fa riflettere sul significato di termini come Verità, Potere, Nazione.

E' sua convinzione profonda che il mondo, e così la Storia, siano creati e ricreati da continue migrazioni di gruppi di persone attraverso confini fittizi. In italiano sono stati pubblicati molti suoi libri, da L'enigma dell'arrivo, Una svolta nel Sud e Una casa per il signor Bisbaf (tutti Mondadori), a Un'area di tenebra (Adelphi), sull'India, da poco in libreria.

Secondo lei, stiamo assistendo ad una rinascita del mondo islamico?

"Quando scrissi Among Believers, gran parte del linguaggio dei fondamentalisti era di ispirazione marxista. Questo è il motivo per cui i marxisti si sono alleati a quella causa religiosa, ma alla fine hanno avuto guai: si sono schierati col fondamentalismo e ne sono rimasti consumati. Quella rivolta religiosa non è rivoluzionaria, ma reazionaria, ed è nelle mani di gente senza istruzione. Avete visto cosa è successo in Afghanistan e sta accadendo in Iran? Si tratta di forme di tirannia".

Eppure anche il fondamentalismo ha i suoi sostenitori...

"Dovremmo evitare di lasciarci sedurre da parole che suonano civili senza esserlo. Mi riferisco a quella parte del mondo accademico americano che guarda con simpatia ad alcuni aspetti del fondamentalismo. D'altra parte, non credo che sia giusto frapporsi ad un processo rivoluzionario influenzando l'andamento degli eventi. Anzi, penso che le persone vadano lasciate libere di proseguire per la loro strada e di pagarne, poi, le conseguenze".

Secondo lei, la Storia è il risultato dei grandi movimenti di massa?

"Se si potesse vedere scorrere la Storia velocemente sotto i nostri occhi, come succede osservando la Terra da un satellite meteorologico, a catturare la nostra attenzione sarebbe la migrazione continua dei popoli. Se andiamo indietro nel tempo, fino all'antica Roma, alle invasioni dei Cimbri o dei Teutoni nelle terre dove un giorno avrebbe dipinto i suoi quadri un uomo chiamato Cézanne, e poi torniamo ai giorni nostri, possiamo notare che nella medesima area del pianeta è in corso, adesso, un analogo fenomeno migratorio. Così gli Andalusi, nome che deriva da "vandali", provenivano dall'Europa Orientale, così i Turchi, dilagando da Est, si accamparono presso le rovine dell'antica Grecia. Nella stessa ottica va considerata l'espansione degli Spagnoli in America Latina".

Sta affermando che per le migrazioni, e quindi per lo sviluppo, sono necessarie le guerre?

"No, spesso le "invasioni" sono incoraggiate dai Paesi ospitanti e non sono per forza motivo di scontro".

Lei ha descritto anche un regime dittatoriale africano, quello di Mobutu.

"Il mio interesse era descrivere Mobutu in quel momento particolare, non l'Africa, né una dittatura. Sono spesso le persone a voler vivere in modo tribale. Prendiamo la situazione yugoslava: un conflitto etnico in una zona che per molto tempo non ha avuto istituzioni libere, dove non c'è fiducia nelle leggi. La stessa cosa accadde quando l'Impero spagnolo cominciò a sgretolarsi. La gente deve imparare ad aver fiducia nelle istituzioni, soprattutto i giovani, perché senza fiducia nelle leggi resta solo l'etnia a difendere un popolo, ma l'etnia è una prigione".

Lei è un caraibico proveniente da una famiglia indiana, e vive a Londra. Come ci si sente con tre patrie diverse?

"Questa domanda implica l'esistenza di un mondo tribale, immagina gli individui quali esseri che hanno un'unica idea della propria identità. In realtà, solo gli Inuit dell'Artico vivono in un mondo completamente tribale, e ciascun uomo può avere dieci idee dell'identità di sé stesso".

Perché, allora, ha scelto di esprimersi in inglese?

"La lingua inglese è molto diffusa in India, anche se sono parecchi gli indiani che parlano l'hindu".

In un'autobiografia del 1986, Finding the Centre, il giornalismo viene da lei visto come un mestiere molto vicino a quello del narratore. Da dove deriva, allora, la cattiva reputazione, per così dire, di cui lei gode nell'ambiente giornalistico?

"Dal fatto che molti giornalisti mi intervistano senza aver letto i miei libri, e il risultato è una perdita di tempo per entrambi e una frode nei confronti dei lettori. Se io diventassi redattore di una rivista musicale, sarebbe una cosa assurda. Ecco, mi irritano i giornalisti che si illudono di poter svolgere la loro professione solo consultando archivi e Internet".

Qual è l'essenza della scrittura?

"I libri mistici terminano con la visione della vita come pura illusione, ma io non condivido l'idea della scrittura come puro intrattenimento. Per me la scrittura è innanzitutto rappresentazione della realtà, descrizione della solidità del mondo".

E qual è il suo autore contemporaneo preferito?

"Non so, io non sono un lettore, ma uno scrittore. Leggo poco, quattro o cinque libri contemporaneamente, ma solo piccoli brani. L'importante, per uno scrittore, è carpire la musica che sta dentro un'opera, le note di un autore, e per questo non c'è bisogno di leggere un libro da cima a fondo".

 

(Il Corriere del Ticino, mercoledì 30 giugno 1999)

 

 

 

 

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