Per lei Frida Kahlo potrebbe rappresentare un punto di arrivo, con la prima
affermazione in campo artistico, oppure di partenza, considerando le
opportunità che il concorso dell’Associazione degli artisti lodigiani potrà
riservarle. Di sicuro la storia di Paola De Luigi, pittrice lodigiana di
grande esperienza e di altrettanto grande timidezza e ritrosia, non potrà
separarsi tanto facilmente da quella dell’artista messicana che ha ispirato
il concorso. Paola De Luigi sta in questo periodo lavorando alla personale
che verrà allestita proprio in città bassa in primavera e sta cominciando a
gustare la prima notorietà, che le porta richieste di quadri e di
partecipazioni a manifestazioni di livello.
Una notorietà arrivata un po’ tardi, ma la sua storia personale è tutta
permeata di arte, non è vero?
«Sì, in verità dipingo fin da quando ero bambina. A chi mi chiedeva il
classico “cosa farai da grande?” rispondevo senza alcun dubbio: “La
pittrice”».
Una passione vissuta come autodidatta o sostenuta da studi?
«Dopo il liceo scientifico ho seguito un corso di due anni alla Scuola
politecnica di design di Milano. È stata un’esperienza fondamentale: ho
avuto la possibilità di affinare la tecnica pittorica e nello stesso tempo
di avvicinarmi al visual design. Ho incontrato artisti del calibro di Bruno
Munari, Nino Di Salvatore, Augusto Garau, respirando l’aria che tirava
all’interno del Movimento Arte Concreta».
E poi è tornata a Lodi?
«Sì, ma ho continuato a lavorare, per me, senza grandi clamori. Ho
frequentato la scuola Bergognone di Angelo Frosio, imparando la tecnica
dell’olio, poi ho smesso e ho, come si dice, appeso i colori al chiodo».
Ma quattro anni fa è scattato qualcosa.
«Sì, è andata così. Mi trovavo in un momento particolare della mia vita e ho
deciso di reagire attraverso la pittura, cercando quasi una terapia. Così ho
ripreso i miei vecchi colori e ho ristudiato le tecniche che avevo appreso
anni prima, concentrandomi su pigmenti e diluizioni, ponendo le basi per
quello che sarebbe venuto».
Vale a dire?
«I primi paesaggi, i primi ritratti di quel periodo hanno riscosso molto
interesse. Nell’estate del 2005 ho partecipato a una mostra alla Marguttiana
di Forte dei Marmi e da lì un certo pubblico ha cominciato a conoscermi,
tanto che l’anno successivo avevo venduto tutti i quadri della mia più
recente produzione».
È vero che ha rifiutato proposte anche di una certa importanza?
«Beh sì, non sempre ho accettato quello che mi proponevano. Non amo lavorare
su commissione, preferisco la libertà espressiva, e poi in me nasce il
timore di deludere il committente».
Parliamo delle sue tecniche preferite, di come lavora alle sue opere.
«Solitamente, sia per i paesaggi sia per i ritratti, fotografo il soggetto.
Capita che un’immagine mi colpisca, mi coinvolga al punto di eleggerla come
soggetto per una rappresentazione. Credo sia un processo inconscio, il primo
passo verso l’opera, l’elaborazione mentale di un dato oggettivo».
Diceva della fotografia.
«Dopo avere scattato la foto ricavo il taglio, scelgo l’effetto grafico,
l’equilibrio, la composizione».
I suoi quadri hanno una definizione quasi perfetta, almeno a un primo
approccio: si ritiene un’artista esclusivamente figurativa?
«Il figurativo fa parte del mio Dna di artista, ma non ho preclusioni nei
confronti dell’astratto e comunque nelle mie opere c’è molto simbolismo. Io
cerco l’astrazione della linea, l’oggetto che rimanda a significati inconsci
e nascosti. La mia produzione non è mai romantica, la composizione non è
classica, certi particolari assumono connotazioni figurative o astratte
secondo la distanza da cui si guarda il quadro o la luce che lo colpisce».
Insomma, tra Magritte e Veermer?
«Magritte mi piace molto, apprezzo la sua precisione nella composizione e
l’effetto simbolico che riesce a creare. Tra i moderni amo molto Hopper».
Insomma tecnica e rigore.
«Già. Nel lavoro pretendo da me ordine, programma e pulizia di linee.
Procedo eliminando gli elementi che disturbano l’immagine. È quasi un
distillare i contenuti dell’immagine che ho davanti, che sia un soggetto dal
vero o una foto».
Cosa ci dobbiamo aspettare dal futuro di Paola De Luigi?
«Sto lavorando molto, ma sono una perfezionista e impiego molto tempo a
terminare un quadro. Inoltre sono consapevole di avere poca esperienza di
mostre, premi e contatti con un mondo che non conosco. Di certo continuerò
sulla mia strada, cercando sempre nuove sollecitazioni. L’affermazione al
concorso e la collaborazione con il gallerista e scultore Ambrogio Ferrari
della galleria Oldrado da Ponte mi daranno la possibilità di allestire una
personale alla quale sto già lavorando».
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