Idee per un'estetica
(Appunti in sospeso, maggio 2000)
“Beauty is truth, truth beauty”, - that is all
Ye know on earth, and all ye need to know
“La bellezza è verità, verità bellezza”, - questo solo
sulla terra sapete, ed è quanto basta
(J. Keats, Ode on a Grecian Urn, 49-50)
Le "cose", sono costitutive per l'arte,
come e più che per la scienza che, cercando l'ordine soggiacente alle
cose, è costretta a rimanere più a lungo in compagnia di "teorie".
L’estetica, come dice il nome stesso - da aisthesis, percezione - ha a
che fare con cose che cadono sotto la percezione dei sensi. Ma anche la scienza,
la filosofia, la matematica ecc. sono a loro modo arte, e l'arte una scienza: la
meta, le mete, la ricerca della verità, la conoscenza, la contemplazione del
mistero non sono diverse. Per questo (ma non solo) Baudelaire poteva
dire: "Il poeta è l'intelligenza più alta e la fantasia è la più scientifica di
tutte le facoltà"; così pure Novalis: "Il poeta è letteralmente fuori di
sé - in cambio tutto avviene dentro di lui. Egli è alla lettera, soggetto e
oggetto allo stesso tempo, anima e universo"; e ancor più chiaramente
Mallarmé: "Io sono ora impersonale, e non più lo Stéphane che tu hai
conosciuto, - ma una attitudine che ha l'universo spirituale a vedere se stesso
e a svilupparsi, attraverso quello che io fui".
Un'estetica serve ad avvicinarci
all'arte e ai suoi prodotti, a capirla meglio e a sollevare un velo sul suo
nucleo originario: con Maritain sostengo qui che esso coincide con l'intuizione
creativa (o l'ispirazione, parola abusata ma vera), che, come momento
contemplativo che fonda l'opera da fare, è una modalità erotica,
poetica dell'anima (conoscenza e affettività inscindibilmente unite) che non
esclude il calcolo, ma lo usa per la rivelazione e la produzione di un’unità
originariamente vissuta, intuita: per dirla con Platone, attesa feconda
d'unità e pienezza, moto, sogno, incanto che vuole esprimersi, generare al
cospetto del bello (poiesis¸ poesia, generazione è il parto di un anima
nutrita alle radici da un oggetto veramente commisurato alle sue aspirazioni).
Cfr. parte finale del Simposio. Cfr. Fedro.
•
L'arte ha a che fare con cose. Per capirle bisogna aprirvisi con
un assenso previo ad ogni (pre)giudizio. Lasciarsi misurare dalle cose, mentre
le si misura. Vale ciò che è tipico di ogni relazione gnoseologica: «Facendosi
misurare dalle cose, la nostra intelligenza si fa misurare dall'intelligenza
stessa, dall'intelligenza in atto puro, dalla quale le cose sono misurate, dalla
quale ricevono il loro essere e la loro intelligibilità» (J. Maritain).
Ogni estetica parte da un'epoché, da una "sospensione" del giudizio, non
solo per evitare un rifiuto prematuro e consentire una valutazione oggettiva, ma
per favorire quello stato di tranquilla recettività favorevole alla
contemplazione. E' meglio, dunque, che l'epoché sia sbilanciata sul lato
di un'incipiente, spontanea adesione affettiva. Sentimenti e conoscenze che
aiutino a partecipare al mondo spirituale di un autore sono indispensabili,
anche se insufficienti. Spesso l'opera d'arte richiede strumenti e conoscenze
specifiche. In ogni caso, e al di là dell'approccio "tecnico", l'arte (per
l'autore e l'interprete, ma anche per il fruitore che desideri esserne
all'altezza) richiede un impegno totale (ars requirit totum hominem).
Aderire in profondità alle cose,
significa vederle in trasparenza, nella loro sostanza pre o iper-concettuale
(sotto qualcuno dei modi di considerazione possibili) come qualità di un destino, nell'atto sorgivo della loro "processione" (exitus,
uscita) dall'Intelligenza prima, quasi sgorgassero dalle mani di Dio (Michelangelo
Buonarroti: «La vera pittura non è altro fuorché una copia delle perfezioni
di Dio e una reminiscenza della Sua pittura… E' una musica e una melodia che
solo l'intelligenza può capire, e non senza grande difficoltà». F. Busoni:
«Il pubblico non sa e non vuol sapere che chi vuol accogliere in sé un'opera
d'arte deve fare metà del lavoro lui stesso»).
Preconcettuale: come quella possibilità di sguardo che è tipica del bambino,
dei sogni, della contemplazione, che nasce da uno stupore non contaminato dalle
griglie concettuali abusate con cui spesso ci rapportiamo alle cose. Meglio
ancora: iperconcettuale: perché è proprio la povertà di predicati con cui
esperiamo (appercepiamo) l'esistente che ce lo rende opaco. Evitare di appendere
le cose al cappio dell'universale astratto (ens rationis), post rem, da
cui deriva la povertà di sguardo con cui spesso prendiamo (o rifiutiamo) le
cose, la loro denotazione convenzionale, utilitaristica, routinaria. Cercare
invece l'ante rem (o, anche, l'essentia absolute considerata,
indifferente a molteplicità e singolarità, di Avicenna e Tommaso)
nell'essentia in rebus, laddove il dono dell'essere si fa forma
determinata, particolare, pur racchiudendo un'inesausta molteplicità di
predicati, una grande ricchezza intensionale.
(In realtà, che cosa non ci direbbe un'eventuale completa descrizione
scientifica della cosa particolare, che tenesse conto della funzione d'onda
dell'universo, in un'ipotetica teoria unificata della gravità quantistica?). Le
cose d'arte hanno uno statuto d'esistenza particolare, in virtù del fatto
d'essere esibite, rappresentate (la vita stessa in questo imita
l'arte, e anche la più irrilevante delle nostre idee o parole è un
rappresentare, un esibire, un rilevare). Personaggi, suoni, colori, concetti,
ecc., ogni contenuto dell'opera è sia un essere concreto, in situ, cioè
un token dato in un contesto delimitato e determinante, sia un type,
ente esemplare, quindi dotato di potenzialità simboliche e metaforiche. Per
questo Croce parla chiaramente di un “universale concreto”. La Critica
del Giudizio di Kant contiene già, credo, un ribaltamento
significativo del precedente criticismo. Il "giudizio riflettente" inquadra in
certo senso ogni giudizio: non è il "giudizio imposto dal soggetto alla
natura" (giudizio determinante), ma il "giudizio imposto al soggetto che
conosce la natura". (Per dirla alla buona. Siamo ad un livello superiore: è
il principio a priori che include previamente tutti gli altri; "come se" fosse
all'uomo impossibile procedere senza supporre un ordine, una non
contraddittorietà, una finalità, ecc.) L’idealismo parte di qui e dalla
robusta critica alla nozione di noumeno. Universale (analogia, isomorfismo e
autoreferenzialità) è lo stesso soggetto, la
mente, l'autocoscienza (chiave di volta del rapporto tra coscienza e oggetto), quindi non possono non esserlo le cose... ecc. La teoria aristotelica
dell’arte come mimesis che, avendo di mira il particolare e il verisimile
nel particolare, raggiunge un alto grado di universalità conoscitiva - superiore
a quello della storia - esprime in nuce cose simili. Cfr. Aristotele, Poetica:
47a-48b; 51b.
• Maritain ritiene che l'intuizione creativa, sia una
conoscenza per connaturalità affettiva, emozionale. Egli non vuole suggerire
«una teoria puramente emozionale o sentimentale» dell'arte, ma ipotizza
l'esistenza di una "emozione-forma", di un'emozione intenzionale
«che, facendo tutt'uno con l'intuizione creativa, dà forma al poema, e che è
intenzionale, come lo è un'idea, [nel senso] che porta in essa infinitamente
più che se stessa». La poesia non ha niente a che fare con «quella emozione
bruta e meramente soggettiva, che è estranea all'arte. […] Non è un'emozione
espressa o dipinta dal poeta, un'emozione-cosa che possa servire da
materia o da materiale alla fabbricazione dell'opera, e non è neppure un fremito
del poeta che il poema farà "correre nella schiena" del lettore"». (L'intuizione
creativa nell'arte e nella poesia, p. 142-143). Si tratta di un'emozione
che Maritain chiama intenzionale (nel senso di Brentano e
Husserl) perché ha un'esistenza simile alla forma, all'universale
(idea, similitudo o species), cioè un'esistenza tendenziale
di immagine, "somiglianza" (similitudo) dell'oggetto, ma anche di "strumento o mezzo tramite cui"
(forma secundum quam)
il soggetto interagisce con l'oggetto, lo penetra, assimilandolo (l'intelligenza
adegua comunque l'oggetto a se stessa). Io mi chiedo: è legittima questa
distinzione, in via di principio? Distinzione tra emozione intenzionale e forma
intenzionale? Non sono piuttosto tali (cioè parzialmente "emozionali") tutte le idee, tutti i concetti e, ancor
prima, le rappresentazioni? Fondate su di un universale principio d'analogia, di
isomorfismo che non può mai isolare completamente, assolutamente, gli aspetti e
le parti della realtà. Si tratta piuttosto di gradi. Penso che alla base ci sia sempre una fondamentale
unità o sinergia tra affetto e concetto, desiderio e conoscenza, intelligenza e
amore. Tommaso sulla conoscenza umana:
«Come la forma mediante cui si produce un'azione
transitiva [letteralmente: forma secundum quam provenit actio tendens in rem exteriorem]
è un'immagine o somiglianza [similitudo] del termine dell'azione - per
esempio il calore che scalda è in qualche modo simile a ciò che vien scaldato -,
così la forma mediante cui si produce l'azione immanente [actio manens in
agente: cioè il conoscere] è un'immagine o somiglianza [similitudo]
dell'oggetto. Dunque la similitudo [la rappresentazione, cioè l'immagine o somiglianza] della cosa
visibile è il mezzo di cui si serve la vista per vedere; e la similitudo
della cosa intelligibile, cioè l'idea [species intelligibilis], è la
forma di cui si serve l'intelletto per intendere» (Tommaso d'Aquino,
Summa Theologiae, I, q. 85, a. 2).
Di fatto ogni forma
rappresentativa è dotata (più o meno) di tonalità affettiva (massima nei
cosiddetti complessi, definiti da Jung come insiemi di
rappresentazioni a comune tonalità affettiva). Quindi mi sembra sbagliato
isolare l’ambito dell’arte individuando nell’“emozione intenzionale” la base
dell'intuizione creativa. Il concetto è sempre similitudo (è un cogliere
nella realtà isomorfismi con e nell’isomorfismo: cfr. la bella trattazione
sull’universalità computazionale in D. Deutsch, La trama della realtà,
Einaudi). E la pasta della realtà è inevitabilmente pulsionale, energetica,
quindi emozionale. Che differenza fa? Maritain stesso suggerisce che è l'intelligenza
a conoscere, non le emozioni. Ma quanta emozione non c’è già nell’intelligenza?
Ci troviamo qui in una zona di frontiera dove le esigenze definitorie urtano
contro le possibilità del vocabolario. L’approccio di Maritain consente
comunque di avvicinarci rispettosamente al fenomeno. Più correttamente dovremmo
però intendere le cose in quest'altro modo, seppur complicando un po’ la
faccenda: è la similitudo, l'intentio (la forma intenzionale
basata sul principio d'analogia) a conoscere, ed essa, funzionando da strumento
di conoscenza, in un soggetto complesso, colto e sensibile, porta con sé la
ricchezza intensionale di altre forme rappresentative (più o meno collegate
tanto da essere, al limite, come teoremi di un unicum geometrico ideale
dove assiomi, teoremi e derivazioni costituiscono una conoscenza globale
- in cui sia possibile cogliere in maniera trasparente il “tutto nel frammento”
, cioè gli assiomi nei teoremi, i teoremi gli uni negli altri, ecc.) e consente
di penetrare anche affettivamente l'oggetto; in tal caso si intravedono molti
predicati perché le forme rappresentative sono ricche e tengono desta
l'attenzione sull'oggetto, nel quale si ravvisa qualche somiglianza "sentita"
con le proprie esperienze. Non sono le emozioni in sé, ma le similitudines
che portano di per sé un carico emozionale, perché portano la nostra
esperienza della realtà e la realtà in noi. Poi quel che conta nella
similitudo è certo “anche” l'emozione, ma forse ancor più la motivazione.
Ogni motivazione si basa, biologicamente, su un'appetizione (un amor,
una curiositas, un'empatia, una voluntas, o voluptas)
orientata in primis e da una parte alla soddisfazione di elementari
esigenze nutritive, poi anche di conservazione e riproduzione (per Platone,
cfr. Simposio, sono modi parziali di eternizzarsi) e infine quindi
- proteron hysteron, cio che è primo di per sé è ultimo per noi - di
ricerca e conoscenza. Grazie alla motivazione si dà l'esperienza e
con questa le emozioni fondamentali (piacere-gioia, dispiacere-tristezza,
rabbia, paura: cfr. gli studi psicologici di Ekman e altri) e tutte le
successive complesse e poi i sentimenti (siano essi originali o combinazioni di
emozioni non interessa qui. Son del parere che anche in questo campo potrebbe
valere il proteron hysteron). Io penso sia proprio l'energia d'appetizione (attiva o passiva) di un individuo, qualora sia orientata prevalentemente verso
istanze conoscitive o di valore - che non tardano nell'uomo a divenire autonome
- a determinarne le capacità generali di intuizione e quindi di appercezione
estetica. A quest’appetizione-motivazione vanno aggiunte le predisposizioni a
produrre-ricevere similitudines, in particolari campi dell'esperienza.
Qui rientra la questione settoriale relativa a suoni, parole, colori, forme,
ethos vari ecc. Per esempio Aristotele nella Poetica, 55a 30 ss.
dice: il poeta dev’essere “sensibile”, portato, versatile, addirittura
“estatico” nei confronti delle varie emozioni: “Sono più credibili, infatti,
coloro che per la loro stessa natura si trovano in uno stato emotivo; più
realmente agita chi è agitato e muove all’ira chi è adirato. Perciò la poetica è
arte propria di un versatile [euphous] o addirittura di un esaltato [manikou],
perché di questi gli uni sono malleabili [euplastoi], gli altri portati a
uscire da sé [ekstatikoi]”. La motivazione appetizione di cui parlo
mantiene il carattere in senso lato erotico-empatico che gli attribuiva
il platonismo, come energia di similitudo, di intenzionalità verso
la totalità dell'esperibile, e consente di allargare immensamente i modi e le
qualità dell'esperienza (quindi anche gli spazi di possibilità e di libertà, di
unità e totalità: per Tommaso l'unico modo di adire alla totalità è, per un
essere limitato come l’uomo, di realizzarla per analogia, quindi nella
conoscenza e nell’amore; la conoscenza infatti permette di divenire “altro” da
sé). La forma rappresentativa, la similitudo, l'intentio, consente
all'emozione (come alle forme intelligibili) di decontestualizzarsi e di
divenire - come parte della similitudo stessa - a suo modo
intenzionale. Di per sé ciò che chiamiamo emozione è una variabile biologica
data in un contesto determinante, e può non favorire la comprensione
appropriata di un oggetto d’arte. Ciò perché un’emozione “sbagliata” (come quando
a scuola si studia per obbligo e a
fatica una grande opera) può far fallire l’approccio, o colorarlo di sfumature
emotive ben diverse da quelle intenzionate dall’autore. Anche il
sentimento, già più differenziato e colorato da svariati mix cognitivi può
ostacolare la comprensione di un'opera che abbia diverse o nuove, o originali,
colorazioni "sentimentali". E' invece l'amor della nostra intenzionalità
(l'empatia nella similitudo) che può favorire la comprensione, perché ha
forza adesiva più pura e indeterminata, e può determinarsi oggettivamente,
lasciandosi puramente, disinteressatamente misurare dall'oggetto della
contemplazione. Quest’amor è come la pura trasparenza dell’intelletto
possibile nella psicologia aristotelica e nella mistica medievale. Cfr. la
mistica renana di sant’Alberto e successori (Dietrich von Freiberg,
Eckhart, ecc.)...
Pietro De
Luigi, maggio 2000
Ciò significa percepire la forma (o qualcuno
dei suoi aspetti) in modo eminente, come energheia dell'ente che
accompagna tautologicamente la sua metabolé. In questo senso la
forma di una cosa può esprimere la potenza attualizzatrice di Dio (è una
delle sue figure partecipate all' “essere non sussistente” - per
dirla con Tommaso -, in quanto Dio è forma formarum, negatio
negationis [Eckhart], non aliud [Cusano], ecc.) Il principio d'identità ha
per l'intuizione profondità metafisica, poiché stabilendo le cose nella
dimensione della verità, dà al contingente, al factum-verum, un
valore di irrefutabilità ontologica (sempre tacitamente presupposta, nel
quotidiano, nella scienza, nelle ricerche sul passato, ecc.), aprendolo ad
un contesto senza tempo (quello della verità) cui si apre per costituzione
anche la nostra mente. Dio è la verità, cioè l'essere (e la
mente) che è, produce, rende vera e fermamente salva la realtà di tutte le
cose.
Per il principio d'identità cfr. la
concezione di Dio come specchio (per es. in Dante) in cui si
riflettono, in pienezza, tutte le cose. (Lo specchio, già presente nei
frammenti dell'antico orfismo, si presta a svariati usi simbolici e
letterari, perché, potendo riflettere tutto, di tutto può divenire simbolo.
Mi ci soffermo perché noto interessanti corrispondenze con l'arte (la
mimesis, la rifllessione, la rappresentazione, la ri-creazione).
Guglielmo D'Auvergne (1180 circa - 1249) diceva: "L'anima umana è
naturalmente posta come sulla linea d'orizzonte di due mondi e ordinata ad
entrambi. Uno di questi è il mondo delle cose sensibili […] ma l'altro è il
Creatore che è in se stesso come il modello e lo specchio ove si
riflettono universalmente e con perfetta limpidezza gli intelligibili primi.
Là stanno tutte le regole della verità, regole prime, dico, e le regole
dell'onestà […] E' dunque il Creatore che è la verità eterna, un eterno
modello d'espressione assolutamente limpida e di rappresentazione
espressiva, in breve, come ho detto, lo specchio senza macchia e
purissimo dove tutto appare. Questo specchio dunque, come ho detto, è
intimamente congiunto e presentissimo agli intelletti umani, davanti ai
quali egli è posto naturalmente e dove essi possono leggere, di conseguenza,
senza nessun intermediario, i principi e le regole di cui abbiamo parlato.
E' dunque in lui, come in un libro vivente e in uno specchio che
produce le forme che l'intelletto legge da solo questi due tipi di regole e
principi, cosicché il Creatore stesso è il libro proprio e naturale
dell'intelletto umano." (Gilson, p. 611). Dio è stato considerato,
per molti filosofi dell'antichità e del medioevo, non solo ratio
cognoscendi, ma anche primum cognitum.
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