A Rainer Maria Rilke musico della parola,
con ammirazione e amicizia
"Che cercate? Dite! E che aspettate?"
"Non lo so; io voglio l'ignoto! Ciò che
mi è noto è illimitato. Io voglio saperne
ancora. L'ultima parola mi manca."
(Ferruccio Busoni, Il mago possente)
Sentivo... che non avrei mai scritto un libro
inglese, né uno latino: e per questo solo motivo...
che la lingua in cui forse mi sarebbe dato non
solo di scrivere, ma anche di pensare, non è
quella latina né l'inglese, né l'italiana o la spagnola,
ma una lingua delle cui parole neppure una m'è
nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute
e in cui forse mi giustificherò un giorno
nella tomba davanti a un giudice sconosciuto.
(Hugo von Hofmannsthal, Lettera aLord Chandos (**))
Anche se
nella forma letteraria si presentano alquanto slegate fra loro, queste
note sono in verità il risultato di convinzioni maturate a lungo e
lentamente.
Con apparente disinvoltura vi si pone un problema assai grande, senza che
della sua definitiva soluzione si dia la chiave: perché non si può
risolvere questo problema nel breve tempo di una vita umana, ammesso pure
che risolvere si possa. Ma esso comprende in sé una innumerevole serie di
problemi minori che propongo alla meditazione degli interessati. Perché
già da molto tempo non ci si è dedicati a serie ricerche nel campo della
musica.
Certo, in ogni tempo sorgono opere geniali e mirabili, e sempre io sono
stato tra i primi a salutare con gioia il passaggio dei vessilliferi del
nuovo; ma mi sembra che le molteplici strade che vengono battute conducano
sì ben lontano - ma non verso l'alto.
Lo spirito di un'opera d'arte, la misura del sentimento, l'umano ch'è in
essa rimangono d'uguale valore nel mutare dei tempi; la forma che accolse
in sé questi tre elementi, i mezzi che li espressero e il gusto di cui li
tinse l'epoca in cui l'opera fu scritta sono fuggevoli e invecchiano
rapidamente. Spirito e sensibilità conservano il loro carattere così
nell'opera d'arte come nell'uomo; le conquiste d'indole tecnica, accettate
con entusiasmo e ammirate, vengono superate, oppure il gusto se ne
allontana, sazio.
Le qualità transitorie costituiscono il «moderno» di un'opera; quelle
immutabili la preservano dal diventare «fuori moda». Nel «moderno» come
nel «vecchio» c'è del buono e del cattivo, dell'autentico e del falso. In
senso assoluto il moderno non esiste - in arte esiste solo il nato prima e
il nato dopo; ciò che fiorisce a lungo e ciò che in breve appassisce.
Sempre c'è stato del moderno e sempre dell'antico.
Le forme artistiche sono tanto più durature quanto più si mantengono
vicine all'essenza del singolo genere d'arte, quanto più si conservano
pure nei loro mezzi e scopi naturali.
La scultura rinuncia all'espressione della pupilla umana e ai colori;
la pittura si degrada se abbandona la superficie quale mezzo di
espressione e si complica fino a diventare decorazione teatrale o quadro
panoramico;
l'architettura ha la sua forma fondamentale che deve procedere dal basso
verso l'alto, prescritta da necessità della statica; le finestre
condizionano necessariamente la struttura centrale e il tetto quella
conclusiva: condizioni permanenti e inattaccabili;
la poesia domina il pensiero astratto che riveste di parole; raggiunge i
più lontani confini e dispone della massima indipendenza.
Ma tutte le arti, mezzi e forme hanno sempre un unico scopo, ritrarre la
natura ed esprimere i sentimenti umani.
Architettura, scultura, poesia e pittura sono arti antiche e mature; i
loro concetti sono fissati e i loro scopi sono sicuri; attraverso millenni
esse hanno trovato la loro via e descrivono la loro orbita al modo dei
pianeti, regolarmente [1].
Di fronte a loro la musica è come un bambino che ha bensì imparato a
camminare, ma deve ancora essere guidato. È un'arte vergine che non ha
ancora nulla provato e sofferto. Essa stessa non si rende conto di ciò che
le conviene, dei vantaggi che possiede e delle capacità che sonnecchiano
in lei: d'altra parte è un fanciullo prodigio che può già dar molto di
bello, che ha già saputo dar gioia a molti e le cui doti sono da tutti
ritenute pienamente mature.
La musica in quanto arte, la cosiddetta musica occidentale, ha appena
quattrocent'anni di vita; si trova nel periodo dello sviluppo: forse nel
primissimo stadio di uno sviluppo ancora imprevedibile. E parliamo di
classici e di tradizioni consacrate! [2] Già un Cherubini nel suo trattato
di contrappunto parla degli «antichi».
Noi abbiamo formulato delle regole, posto dei principi, prescritto delle
leggi... applichiamo le leggi degli adulti a un fanciullo che non ha
ancora il senso della responsabilità!
Per quanto giovane, in questo fanciullo si può già riconoscere una qualità
radiosa che lo distingue dai suoi compagni più anziani. Ed è proprio
questa mirabile qualità che i legislatori non vogliono vedere, perché
altrimenti le loro leggi crollerebbero. Il fanciullo vola! I suoi piedi
non toccano la terra. Non è soggetto alla gravità. È quasi incorporeo. La
sua materia è trasparente. Aria che vibra. Quasi la natura stessa. Egli è
libero.
Però la libertà è cosa che gli uomini non hanno mai compreso pienamente,
né interamente sentito. Essi non sanno conoscerla né riconoscerla.
Negano la vocazione di questo fanciullo e lo incatenano. Quest'essere
aereo deve camminare come si conviene, deve - come ogni altro - adattarsi
alle regole della decenza; appena gli è permesso di saltellare - mentre
sarebbe sua aspirazione seguire la curva dell'arcobaleno e rompere con le
nuvole i raggi del sole.
La musica è nata libera e divenir libera è il suo destino. Diverrà la più
perfetta delle interpretazioni della natura grazie alla libertà della sua
immaterialità. Persino la parola poetica le è seconda nell'incorporeità:
la musica può raccogliersi su se stessa e distendersi, può essere la calma
più immobile e l'impeto più sfrenato; essa attinge i culmini più alti che
siano immaginabili per gli uomini - quale altra arte può tanto? -, e la
sua sensibilità colpisce il cuore umano con quella intensità che è
indipendente dal «concetto».
Essa ritrae un carattere senza descriverlo, con la mobilità dell'anima,
con la vivacità dei momenti che si susseguono; laddove il pittore o lo
scultore possono rappresentare un solo lato o un momento di una situazione
e il poeta interpreta un temperamento e i suoi moti faticosamente,
allineando parole.
Perciò rappresentazione e descrizione non sono l'essenza della musica; e
con ciò noi pronunciamo il rifiuto della musica a programma e veniamo alla
questione dei fini dell'arte musicale.
Musica assoluta! Quel che i legislatori intendono con questa parola è
forse quanto in musica ci sia di più lontano dall'assoluto. «Musica
assoluta» è un gioco formale, privo di programma poetico dove la parte più
importante è la forma. Ma appunto la forma è l'opposto della musica
assoluta, che ebbe il divino privilegio di librarsi a volo, libera dai
vincoli della materia. In un quadro, la rappresentazione di un tramonto è
delimitata dalla cornice; il fenomeno naturale, sconfinato, assume una
limitazione quadrangolare; il disegno di una nube, scelto una volta,
rimane immutabile per sempre. La musica può rischiararsi, oscurarsi,
spostarsi e infine svanire come lo stesso fenomeno naturale: l'istinto
decide il musicista creatore ad impiegare quegli accenti che toccano gli
stessi tasti nell'animo umano e risvegliano la stessa eco dei fenomeni
naturali.
Invece la musica assoluta è qualcosa di freddo, che fa pensare a leggii
ben allineati, al rapporto di tonica e dominante, a sviluppi tematici e
code.
Sento il secondo violino che si sforza di imitare il primo, più bravo di
lui, una quarta sotto; sento una lotta inutile per arrivare là donde si
era partiti. Questa musica dovrebbe piuttosto chiamarsi architettonica o
simmetrica o ordinata e trae origine dal fatto che singoli compositori
rivestirono di questa forma il loro spirito e la loro sensibilità, perché
era la più vicina alla loro indole o al loro tempo. I legislatori hanno
identificato lo spirito, la sensibilità, l'individualità di quei
compositori e il loro tempo con la musica simmetrica e finalmente - poiché
non potevano ricrearne né lo spirito, né la sensibilità, né l'epoca -
hanno conservato la forma come simbolo e l'hanno innalzata alla dignità di
emblema a dogma di fede. I compositori cercarono e ritennero questa forma
il mezzo più adatto a comunicare il loro pensiero; questo svanì e i
legislatori scoprono e conservano le vesti di Euforione rimaste sulla
terra:
«È pur sempre un bel trovare. La fiamma, certo, è scomparsa, non per
questo il mondo mi fa compassione: ce ne resta abbastanza per consacrare
poeti e fondare invidie di corporazione e di mestiere. E se non posso
conferire talenti, ne darò almeno in pegno la veste» (1).
Non è strano che dal compositore si esiga originalità in tutto e gliela si
vieti nella forma? Perché meravigliarsi se, quando diventa veramente
originale, lo si accusa di mancanza di forma? Mozart! L'uomo che cercae
che trova, il grand'uomo dal cuore di fanciullo, lui ammiriamo, a lui
aderiamo, non alla sua tonica e dominante, ai suoi sviluppi e code.
Di tale desiderio di liberazione era colmo Beethoven, il romantico uomo
della Rivoluzione, che ascese di un piccolo passo nel ricondurre la musica
alla sua natura più alta; un piccolo passo del grande compito; un passo
grande sulla sua strada personale. Egli non ha raggiunto la musica
assoluta interamente, ma l'ha presentita in momenti singoli come
nell'introduzione alla Fuga della Sonata op. 106. In generale i
compositori si sono avvicinati alla vera natura della musica soprattutto
nei brani di preparazione e di congiunzione (preludi e transizioni), nei
quali credettero fosse loro concesso di trascurare la simmetria e
sembrarono respirare, senza saperlo, liberamente. Persino il tanto minore
Schumann è toccato da una scintilla di questa sconfinata arte panica in
certi passi di preparazione e di congiunzione - prova ne sia il passaggio
al Finale della Sinfonia in re minore - e lo stesso si può
affermare di Brahms nell'introduzione al Finale della sua Prima
Sinfonia.
Ma non appena essi varcano la soglia del tema principale, il loro
portamento diventa rigido e convenzionale come quello di qualcuno che
entri in un pubblico ufficio.
Accanto a Beethoven, chi più si avvicina alla musica primordiale è Bach.
Le sue fantasie per organo (non le fughe) hanno indubbiamente un forte
tratto paesaggistico (contrapposto all'architettonico), ispirazioni che si
potrebbero definire «uomo e natura» [3]; in lui la forma si muove nel modo
più libero perché egli non si sentì legato ai suoi predecessori - pur
ammirandoli e talora traendone profitto - e perché l'ancora recente
conquista della scala temperata gli offriva infinite possibilità nuove.
Perciò Bach e Beethoven debbono essere considerati un principio e non un
punto d'arrivo da non superare. Non si potranno probabilmente superare il
loro spirito e il loro sentire; e ciò riconferma quanto è stato detto al
principio di queste righe. Cioè che sentire e spirito non perdono nulla
del loro valore per mutar dei tempi, e che colui che sale alle loro più
eccelse vette sovrasterà in ogni tempo la folla.
Ciò che dev'essere ancora superato è la loro forma espressiva e la loro
libertà. Wagner, gigante germanico che nella sonorità della sua orchestra
sfiorò l'orizzonte terreno, che accrebbe certo la potenza espressiva, ma
la limitò a un sistema (dramma musicale, declamazione, tema conduttore),
non è passibile di ulteriore accrescimento per i limiti che egli stesso si
pose. La sua specie comincia e finisce con lui; in primo luogo perché egli
la portò alla più alta perfezione, alla compiutezza; poi perché il compito
che egli si era posto era tale che un uomo solo poteva bastare a
risolverlo. «Egli ci dà allo stesso tempo il problema e la sua soluzione»,
come ebbi a dire una volta di Mozart (2). Le vie che Beethoven ci ha
aperto potranno essere percorse compiutamente soltanto da varie
generazioni. Può essere che -come tutto nel sistema cosmico - esse formino
solo un cerchio; di tali dimensioni però, che la parte che noi ne vediamo
ci appare come una linea retta. Il cerchio tracciato da Wagner lo
abbracciamo invece interamente. Un cerchio nel gran cerchio.
Il nome di Wagner ci riporta alla musica a programma. Essa è stata assunta
a contrapposto della cosiddetta musica assoluta, e i concetti si sono
talmente cristallizzati che anche persone intelligenti si attengono
all'una o all'altra dottrina senza accettare una terza possibilità che
stia al di fuori e al di sopra di queste due. In realtà la musica a
programma è altrettanto unilaterale e limitata di quei disegni da
tappezzeria sonora magnificati da Hanslick (3) , che si proclamano musica
assoluta. Invece delle formule architettoniche e simmetriche, invece dei
rapporti di tonica e dominante essa si è legata al vincolo del programma
poetico, a volte persino filosofico, come a una rotaia.
Ogni motivo, così mi sembra, racchiude in sé il suo impulso vitale come un
seme. Semi diversi generano specie diverse di piante, che si distinguono
per forma, fogliame, fiori, frutti, sviluppo e colori [5].
Persino la stessa specie di pianta cresce in una forma indipendente per
sviluppo, aspetto e forza, in ogni suo esemplare. Così in ogni motivo
esiste, stabilita a priori, la sua forma compiuta; ogni singolo tema deve
svilupparsi differentemente, ma ognuno segue in questo processo le
necessità dell'eterna armonia. Questa forma rimane indistruttibile, non
mai però uguale a se stessa.
Il tema musicale dell'opera a programma porta in sé le stesse condizioni;
ma già nella prima fase del suo sviluppo, anziché secondo la sua legge
deve formarsi, o piuttosto «incurvarsi», secondo quella del «programma».
In questo modo, portato sin dal principio fuori della sua vita naturale,
si trova infine a un punto d'arrivo assolutamente inaspettato, dove
l'hanno portato non la sua costituzione organica ma, di proposito, il
programma, l'azione, l'idea filosofica.
Invero un'arte limitata, primitiva! Certo, esistono espressioni musicali
descrittive evidentissime - hanno appunto costituito la base di tutta
questa teoria -, ma sono mezzi scarsi e piccini che della musica formano
una parte molto esigua. Il più evidente è l'avvilimento del suono a
risonanza, nell'imitare i rumori della natura: il rimbombo del tuono, il
mormorio degli alberi, le voci degli animali; e già meno evidenti,
simboliche, le riproduzioni delle percezioni visive, come il balenare del
lampo gli sbalzi improvvisi, il volo degli uccelli; e comprensibili solo
attraverso una trasposizione attuata dalle facoltà intellettive, il
segnale delle trombe come simbolo di guerra, la zampogna come evocazione
pastorale, il ritmo di marcia a significazione del camminare, il corale
come latore del sentimento religioso. Aggiungiamo gli elementi
caratteristici nazionali - strumenti nazionali e motivi nazionali - e
avremo esaurientemente enumerato tutti gli espedienti della musica a
programma. Tempo mosso e tranquillo, minore e maggiore, acuto e basso [6]
nel loro significato tradizionale completano l'inventario. Nel vasto campo
della composizione musicale tutti questi possono essere utili mezzi
sussidiari, ma presi in sé, nulla hanno in comune con la musica: allo
stesso modo come le figure di cera nulla hanno in comune con la scultura.
E infine che cosa può avere in comune la rappresentazione di un piccolo
avvenimento terreno, il ragguaglio intorno a un fastidioso vicino - poco
importa se costui si trovi nella stanza attigua o in un altro continente -
con quella musica che si diffonde nell'universo?
Indubbiamente la musica ha il potere di far vibrare i più diversi stati
d'animo: paura (Leporello), affanno, rinvigorimento, spossatezza (gli
ultimi quartetti di Beethoven), decisione (Wotan), esitazione,
abbattimento, durezza, tenerezza, eccitazione, il rianimarsi, il
quietarsi, il sorprendente, l'aspettativa, ecc.; e anche la risonanza
interna di avvenimenti esteriori che è contenuta in quegli stati d'animo.
Ma non può riprodurre la causa di quei moti d'animo: non la gioia per uno
scampato pericolo, non il pericolo o il genere di pericolo che destano la
paura; può ben rappresentare uno stato passionale, ma non la qualità
psichica di questa passione, se sia invidia o gelosia; altrettanto inutile
è voler tradurre in suoni qualità morali come vanità, intelligenza, o
addirittura voler esprimere per suo mezzo concetti astratti come verità e
giustizia. Come si potrebbe pensare a riprodurre in musica un uomo povero,
eppure contento? La contentezza, come stato psichico potrà tradursi in
musica; ma dove rimane la povertà, il problema etico che in questo caso
era importante, povero ma contento? E questo perché «povero» è una
condizione terrena e sociale, che non ha riscontro nell'armonia eterna. Ma
la musica è una parte dell'universo vibrante.
(4) La massima parte della musica teatrale moderna soffre dell'errore di
voler ripetere gli avvenimenti che si svolgono sulla scena, invece di
perseguire il suo vero e proprio compito, quello cioè di esprimere lo
stato d'animo dei personaggi durante gli avvenimenti. Se la scena ci
presenta un immaginario temporale, questo avvenimento basta sia percepito
dagli occhi. Eppure quasi tutti i compositori si sforzano di descrivere il
temporale in musica, il che non solo è ripetizione indebolita e inutile ma
trascuranza del loro compito. O il personaggio sulla scena risente nella
sua anima l'influsso del temporale, o a causa di pensieri che lo occupano
più fortemente non lo risente. Il temporale si può vedere e udire anche
senza l'aiuto della musica; ma ciò che passa intanto nell'anima dell'uomo,
ciò che non si può vedere né udire, questo la musica deve rendere
comprensibile.
D'altra parte esistono stati d'animo «visibili» sulla scena, dei quali non
occorre che la musica si occupi. Prendiamo la seguente situazione
teatrale: [7] (6) una lieta brigata notturna si allontana cantando e
scompare dalla vista; frattanto in primo piano si combatte in silenzio un
accanito duello. Qui la musica dovrà prolungare la presenza dell'allegra
brigata, non più raggiungibile con l'occhio, per mezzo del canto che dovrà
continuare: quel che fanno i due in primo piano e quel che sentono
frattanto, è comprensibile senza bisogno di ulteriori spiegazioni e la
musica, drammaticamente parlando, non deve prendervi parte, né
interrompere il tragico silenzio.
Ritengo giustificata, entro certi limiti, la formula dell'opera antica,
che ricapitolava lo stato d'animo raggiunto da una scena drammaticamente
movimentata concludendolo in un pezzo chiuso (l'aria). - Parola e gesto
comunicavano il corso drammatico dell'azione, seguiti appena dalla musica
in forma di recitativo; giunti alla sosta, la musica riprendeva la parte
principale. Tutto ciò è meno esteriore di quanto ci si voglia far credere
oggi. Fu la forma irrigidita di questa «aria» che portò alla falsità
dell'espressione e alla decadenza.
Sempre (7) la parola cantata sul palcoscenico rimarrà una convenzione e un
ostacolo per ogni effetto veridico: per uscire con decoro da questo
conflitto, l'azione in cui i personaggi agiscono cantando dovrà essere
posta sin da principio su di un piano incredibile, irreale, inverosimile,
affinché l'impossibile poggi sull'impossibile, e tutti e due divengano
possibili e accettabili.
Già per questo, perché ignora a priori questo importante principio [7],
ritengo il cosiddetto verismo italiano insostenibile sulla scena musicale.
Quanto alla questione del futuro dell'opera, bisogna conquistare la
chiarezza anche su questo quesito: «In quali momenti la musica è
indispensabile a teatro?» Ecco la risposta precisa: nelle danze, nelle
marce, nelle canzoni, e quando nell'azione interviene il soprannaturale.
Ne nasce una nuova possibilità per l'idea del contenuto soprannaturale. E
un'altra ancora, per quella del puro «gioco»: il piacere del
travestimento, il teatro come aperta e voluta simulazione, lo scherzo e
l'irrealtà come opposti alla serietà e alla veridicità della vita. Allora
sarà giusto che i personaggi affermino il loro amore e scarichino il loro
odio cantando, e si battano in duello melodicamente, e nelle esplosioni
patetiche diano in lunghe «corone» sugli acuti; allora sarà giusto che di
proposito si comportino in modo diverso sulla scena che nella vita in
luogo di fare involontariamente il contrario (come accade sui nostri
teatri, soprattutto nell'opera).
L'opera dovrebbe impadronirsi del soprannaturale e dell'innaturale come
della sola regione di fenomeni e sentimenti che le convenga, e così creare
un mondo di apparenze che rifletta la vita in uno specchio magico o in uno
deformante: dovrebbe voler dare di proposito ciò che nella vita reale è
irreperibile. Lo specchio magico per l'opera seria, lo specchio deformante
per l'opera comica. E vi siano pure intrecciate danze, mascherate e magie,
così che lo spettatore abbia coscienza ad ogni momento della piacevole
menzogna e non vi si abbandoni come se si trattasse di un avvenimento di
vita reale.
A quel modo che l'artista, se vuol commuovere, non dev'essere commosso lui
stesso, pena la perdita immediata della padronanza dei suoi mezzi al
momento buono, così anche lo spettatore, se vuol gustare l'effetto
teatrale, non deve mai confonderlo con la realtà, altrimenti il godimento
estetico si abbasserà a mera partecipazione umana. Chi rappresenta
«reciti», non viva in proprio. E lo spettatore rimanga incredulo e con ciò
libero nel suo spirituale ricevere e gustare.
Stando a queste premesse, un futuro per l'opera si può concepire
benissimo. Ma temo che l'ostacolo primo e più duro l'opporrà il pubblico
stesso.
Di fronte al teatro le sue disposizioni, mi sembra, sono addirittura
criminali: si può pensare che i più esigano dalla scena una forte emozione
realistica, proprio perché siffatte emozioni mancano alla loro mediocre
esistenza; certo anche perché il coraggio vien loro meno di fronte a quei
conflitti cui aspirerebbero. E la scena offre al pubblico questi conflitti
senza i pericoli concomitanti e le cattive conseguenze, senza
comprometterlo e soprattutto senza affaticarlo. Perché il pubblico non sa
e non vuol sapere che chi vuol accogliere in sé un'opera d'arte deve fare
metà del lavoro lui stesso.
(Riprende il testo della I edizione)
L'esecuzione della musica proviene da quelle libere altezze dalle quali la
musica stessa è discesa. Quando essa corre il rischio di divenire terrena,
all'esecuzione spetta di risollevarla, aiutandola a ritrovare il suo
originario «librarsi».
La notazione, la scrittura di pezzi musicali, è in primo luogo un
ingegnoso espediente per fissare un'improvvisazione, sì da poterla far
rivivere in un secondo tempo. Ma tra quella e questa corre lo stesso
rapporto che tra il ritratto e il modello vivo. L'esecuzione deve
sciogliere la rigidità dei segni e rimetterli in movimento.
Invece i legislatori pretendono che l'esecutore riproduca la rigidità dei
segni e considerano la riproduzione tanto più perfetta quanto più si
attiene ai segni.
Quello che il compositore necessariamente perde della sua ispirazione
attraverso i segni [8], l'esecutore deve ricrearlo attraverso la sua
propria intuizione.
Per i legislatori appunto i segni sono ciò che più importa, e sempre più
importanza acquistano: la musica nuova viene dedotta dai segni antichi -
essi significano la musica stessa.
Se dipendesse dai legislatori, lo stesso pezzo dovrebbe esser suonato
sempre nello stesso movimento ad ogni esecuzione, poco importa per opera
di chi e in quali circostanze.
Ma questo non è possibile; la natura alata ed espansiva del divino
fanciullo vi si oppone; essa esige il contrario. Ogni giorno comincia in
modo diverso dal precedente e pur sempre con un'aurora. - Grandi artisti
suonano le loro proprie opere in modo sempre differente, le riplasmano
secondo l'ispirazione del momento; affrettano e trattengono i tempi - in
un modo che non è possibile fissare sulla carta - e sempre secondo
rapporti suggeriti da quella «eterna armonia».
Allora il legislatore si irrita e rimanda il creatore al suo stesso testo.
E allo stato attuale delle cose si dà ragione al legislatore.
«Notazione» («scrittura») mi conduce a «trascrizione»: concetto molto mal
compreso oggi e quasi spregiativo. La frequente opposizione che ho
sollevato con le mie «trascrizioni», e quella che tante critiche
irragionevoli hanno sollevato in me, mi hanno spinto a tentar di
raggiungere la chiarezza su questo punto. Ecco quanto in definitiva ne
penso: ogni notazione è già trascrizione di un'idea astratta. Nel momento
in cui la penna se ne impadronisce, il pensiero perde la sua forma
originale. L'intenzione di fissare l'idea con la scrittura impone già la
scelta della battuta e della tonalità. Il mezzo formale e sonoro - per il
quale il compositore deve pur decidersi - determinano sempre più via e
limiti.
È come con l'uomo. Nato ignudo e con inclinazioni ancora indeterminabili,
l'uomo si decide, o a un dato momento è costretto, a scegliere una
carriera. Seppure qualcosa dell'indistruttibile carattere originario tanto
dell'idea musicale quanto dell'uomo permanga, tuttavia a partire dal
momento della scelta essi vengono costretti in un tipo già classificato.
L'idea diventa una sonata o un concerto, l'uomo un soldato o un sacerdote.
Questo è un arrangiamento dell'originale. Da questa prima trascrizione
alla seconda il passo è relativamente breve e senza importanza. Pure, in
generale, si fa gran caso solo della seconda. E nel far ciò non si avverte
che la trascrizione non distrugge la versione originale e quindi per colpa
di quella non si perde questa.
Anche l'esecuzione di un pezzo è una trascrizione, e anche questa non
potrà mai far sì che l'originale non esista - per quanto libera ne sia
l'esecuzione.
- Giacché l'opera d'arte musicale sussiste intera e indenne prima di
risuonare e dopo che ha finito di risuonare. È insieme dentro e fuori del
tempo, e la sua essenza è quella che ci può dare una tangibile
rappresentazione del concetto dell'idealità del tempo, altrimenti
inafferrabile.
Del resto la maggior parte delle composizioni per pianoforte di Beethoven
fanno l'effetto di trascrizioni dall'orchestra, la maggior parte delle
opere orchestrali di Schumann di trascrizioni dal pianoforte - e in certo
modo lo sono.
Strano a dirsi, la forma della variazione trova grande considerazione
presso coloro che si attengono alla lettera. È strano, perché la forma
della variazione - quando è costruita su un tema altrui - presenta tutta
una serie di rielaborazioni, e tanto più irrispettose quanto più sono
geniali.
Così la rielaborazione sarebbe illegittima perché muta l'originale; e il
mutamento legittimo, benché lo rielabori [9].
«Musikalisch» è concetto che appartiene ai tedeschi, in nessun altra
lingua la parola «musicale» è usata in quel senso. È un concetto che
appartiene ai tedeschi e non alla cultura universale, e il suo significato
è errato e intraducibile. La parola «musikalisch» deriva da musica, come
«poetico» da poesia e «fisico» da fisica. Se io dico: Schubert fu uno
degli esseri più «musicali», è come se io dicessi: Helmholtz fu uno degli
esseri più «fisici». Musicale vuol dire: ciò che a noi riesce percepibile
in ritmi e intervalli. Musicale può essere un armadio, se contiene un
carillon [10]. In senso traslato, ad ogni modo, «musicale» può voler dire
armonioso.
Un noto poeta mi disse una volta: «I miei versi sono troppo musicali per
poter essere musicati».
«Spirits moving musically
to a lute's well-tuned law»
[«Gli spiriti si muovevano musicalmente
seguendo la bella melodia del liuto»]
dice E.A. Poe; e ben a proposito si parla di «riso musicale», perché suona
come musica.
Nell'uso tedesco corrente, e quasi esclusivo, persona musicale è chi dà
prova di comprensione per la musica per il fatto di distinguere e di
sentire il lato tecnico di quest'arte; con questo intendendosi qui ritmo,
armonia, intonazione, andamento delle parti e tematica. Quante più finezze
egli vi sa distinguere o riprodurre, tanto più musicale è giudicato.
Dato il gran peso che si dà a questi elementi della musica, è naturale che
la «musicalità» abbia assunto un'importanza enorme. - Di conseguenza un
artista che suona con tecnica perfetta dovrebbe apparire l'esecutore più
musicale: ma poiché per tecnica si intende solo il dominio meccanico dello
strumento, «tecnico» e «musicale» son diventati concetti contraddittori.
Si è andati tanto in là, da designare persino come «musicale» un pezzo di
musica [11] o addirittura da affermare che un grande compositore come
Berlioz non fosse musicale abbastanza (10). «Non musicale» è il biasimo
peggiore, esso bolla colui che ne è colpito e lo rende spregevole (11).
In un paese come l'Italia, dove il senso della gioia musicale è generale,
la distinzione è superfìua, e la parola per designarla non esiste (12). In
Francia, dove il sentimento della musica non vive nel popolo, esistono
musicisti e non musicisti. Degli altri alcuni «aiment beaucoup la musique»
oppure «ils ne l'aiment pas». Solo in Germania essere musicali, cioè, non
solo sentire amore per la musica, ma principalmente comprenderla nei suoi
mezzi tecnici d'espressione e ritenerne le leggi, è un punto d'onore.
Mille mani trattengono l'alato fanciullo e sorvegliano benintenzionate i
suoi passi, affinché non voli verso l'alto e sia così preservato da una
grave caduta. Ma egli è ancora così giovane, ed è eterno; verrà il momento
della sua libertà. Quando cesserà d'essere «musicale».
Il sentimento (13) è una questione d'onore e di moralità - come l'onestà -
una qualità che nessuno permette gli sia negata; e vale nella vita come
nell'arte. Ma se nella vita, grazie a qualche qualità brillante del
carattere - per esempio l'ardimento o l'incorruttibilità - la sua mancanza
si perdona, nell'arte si pone come la qualità morale suprema.
Però il sentimento (in musica) esige due compagni: il gusto e lo stile.
Ora nella vita il gusto si incontra altrettanto di rado che il sentimento
vero e profondo, e, quanto allo stile, esso appartiene appunto al campo
artistico. Ciò che rimane è una parvenza di sentimento, che bisogna
definire sentimentalismo e ampollosità. E questa parvenza si vuole,
anzitutto, chiaramente visibile! Sottolineata, sì che ognuno la noti, la
veda e la oda. Essa viene proiettata al pubblico su di uno schermo ad alto
ingrandimento, sì che balli davanti ai suoi occhi importuna e nebulosa;
urlata perché entri nell'orecchio di chi dall'arte è più lontano; dorata
perché stupisca i nullatenenti.
Infatti anche nella vita si fa maggior profusione delle espressioni del
sentimento negli atteggiamenti e nelle parole; più raro e più autentico è
il sentimento che agisce senza parlare, e il più prezioso è quello che si
nasconde.
Per sentimento si intende comunemente: espressione tenera, dolente, e
sovrabbondante.
E che cosa non racchiude ancora in sé questo fiore meraviglioso!
Riservatezza e indulgenza, spirito di sacrificio, forza, attività,
pazienza, generosità, giocondità, e quella intelligenza che tutto regge,
dalla quale propriamente il sentimento ha origine.
Lo stesso vale per l'arte, la quale rispecchia la vita, e tanto più per la
musica, che della vita ripete le sensazioni: nell'arte però devono
aggiungersi, come ho sottolineato, il gusto e lo stile; il quale appunto
differenzia l'arte dalla vita.
Invece il profano, l'artista mediocre, s'affaticano soltanto alla ricerca
del sentimento formato ridotto, del sentimento «al minuto», di breve
respiro.
Il sentimento in grande dal profano, dal semi-artista, dal pubblico (e
purtroppo anche dalla critica!) è scambiato per mancanza di sensibilità;
perché costoro non sono capaci di afferrare vaste linee come parti di un
tutto ancora più vasto. Dunque sentimento è anche economia.
Di conseguenza io distinguo: sentimento come gusto - come stile - come
economia. Ognuno un tutto, e ognuno un terzo del tutto. E in essi e sopra
di essi regna poi una trinità soggettiva: il temperamento, l'intelligenza
e l'istinto dell'equilibrio.
Questi sei elementi conducono una danza così sottilmente ordinata nel loro
appaiarsi e intrecciarsi, portare e venir portati, farsi avanti e trarsi
indietro, muoversi ed arrestarsi, quale è impossibile immaginarsi più
ingegnosa.
Se l'accordo formato da queste due triadi è ben intonato, allora può e
deve accompagnarsi al sentimento la fantasia: basata su questi sei
requisiti, essa non potrà degenerare, e appunto dalla loro unione nasce la
personalità. Questa, come una lente, riceve le impressioni luminose, le
riflette a suo modo a guisa di negativo fotografico, sì che all'uditore
appare l'immagine positiva.
Poiché anche il gusto è uno degli elementi costitutivi del sentimento,
questo altera secondo le epoche - come ogni altra cosa - la forma in cui è
espresso. Cioè: del sentimento si preferisce, nelle diverse epoche, un
aspetto piuttosto che un altro, e quello prescelto si coltiva con cura
particolare, si mette più in evidenza.
Così con Wagner e dopo di lui fu la volta di una gonfia sensualità: e
presso i compositori d'oggi la forma basata sul crescendo d'intensità
emozionale non è ancora superata. Ad ogni inizio tranquillo seguiva un
rapido moto ascensionale. Wagner, in ciò insaziabile ma non inesauribile,
si trovò nella necessità di ricorrere al ripiego di attaccare di nuovo col
«piano» dopo aver raggiunto un punto culminante, per crescere subito
ancora.
I francesi moderni tornano indietro: il loro sentimento è riflessiva
castità, forse piuttosto sensualità trattenuta: ai montuosi sentieri in
salita di Wagner hanno fatto seguito monotone pianure di una crepuscolare
uniformità.
Così si forma nel sentimento lo «stile», quando il gusto lo guida.
Gli «Apostoli della Nona Sinfonia» inventarono nella musica il concetto di
profondità. Esso possiede ancora tutto il suo valore, specialmente in
Germania. - Esiste una profondità del sentimento e una profondità del
pensiero: quest'ultima è letteraria e non può trovar la sua applicazione
nei suoni.
La profondità del sentimento, invece, appartiene all'anima e con ciò,
senz'altro, alla natura della musica.
Della profondità in musica gli Apostoli della Nona Sinfonia danno
una valutazione speciale e non chiaramente definita.
La profondità diventa per loro estensione, si cerca di raggiungerla per
mezzo della pesantezza: essa si manifesta in seguito - per associazione di
idee - nella preferenza per i registri «bassi» e (come ho avuto
l'occasione di osservare) anche nell'introdurre un secondo significato,
nascosto, per lo più letterario.
Se non tutte, certo queste ne sono le caratteristiche più importanti.
Eppure ogni amico della filosofia dovrebbe intendere per profondità del
sentimento quel che nel sentimento è di più perfetto: l'immedesimarsi
completamente in uno stato d'animo.
Poiché anche il gusto è uno degli elementi costitutivi del sentimento,
questo modifica secondo le epoche - come ogni altra cosa - la forma in cui
nare dalla forza autosatirica delle maschere e delle smorfie, dalla
vittoria della sfrenatezza sulle leggi, dal tratto vendicativo della beffa
cui è dato libero corso: costui si mostra incapace di calarsi nella
profondità dei sentimenti.
E così si conferma che la profondità del sentimento ha le sue radici nella
piena comprensione di ogni stato d'animo - anche del più volubile - e la
sua fioritura nella sua capacità espressiva: mentre la comune concezione
del sentimento profondo mette in luce solo un lato del sentimento umano e
ne fa una specializzazione.
Nell'aria del vino del Don Giovanni c'è più profondità che in
parecchie marce funebri e notturni: la profondità del sentimento si
esprime anche nel non sperperarlo nel secondario e nell'insignificante.
(Da qui anche nella I ediz.)
L'artista creatore non dovrebbe accettare alcuna legge tradizionale a
occhi chiusi bensì considerare a priori la propria opera come
un'eccezione. Dovrebbe cercare una legge propria e adeguata al suo caso,
la dovrebbe formulare e poi di nuovo distruggere, dopo la prima
applicazione perfetta, per non cadere lui stesso in ripetizioni all'opera
successiva.
Il compito del creatore sta nel dettar leggi e non nel seguirle. Chi segue
leggi date cessa di essere un creatore [12].
La forza creativa è tanto più facilmente riconoscibile quanto più sa
rendersi indipendente dalla tradizione. Ma non è con l'evitare le leggi di
proposito che si dà l'illusione della forza creativa, tanto meno la si
genera.
Il vero creatore, in fondo, tende solo alla compiutezza. E mentre egli la
armonizza con la sua propria individualità, una nuova legge sorge
spontaneamente.
Lo routine (15) è molto apprezzata, spesso richiesta: la "professione"
musicale la esige. Che nella musica la routine possa esistere e che, come
se non bastasse, possa richiedersi come condizione dell'esser musicista,
dimostra però ancora una volta quanto i limiti della nostra arte siano
angusti. Routine significa: essere arrivati a possedere alcune esperienze
e alcuni artifici e saperli adoperare ad ogni evenienza. Dunque ci dev'essere
un numero di casi analoghi sorprendente. Ma a me piacerebbe sognare una
specie di attività artistica in cui ogni caso fosse nuovo, una eccezione!
Di fronte a questo, l'esercito dei praticoni si troverebbe disarmato e
inerte: finalmente dovrebbe battere in ritirata e sparire. La routine
trasforma il tempio dell'arte in una fabbrica. Distrugge l'atto del
creare. Perché creare significa: generare dal nulla. Invece la routine
prospera nell'imitazione. È la «poesia che si lascia commissionare».
Domina perché corrisponde alla maggioranza. A teatro, in orchestra, tra i
virtuosi, nell'insegnamento. Si vorrebbe gridare: evitate la routine,
cominciate ogni volta come se non aveste cominciato mai, e piuttosto
pensate e sentite!
Perché vedete, i milioni di melodie che un giorno risuoneranno esistono
sin dall'inizio, sono pronte, aleggiano nell'etere, e con loro altri
milioni di melodie che non saranno udite mai. Basta tendere la mano ed
eccovi un fiore, un soffio d'aria marina, un raggio di sole: evitate la
routine perché essa arriva solo a ciò che riempie la vostra stanza, e
sempre alle stesse cose: diverrete così pigri che non vi alzerete quasi
più dalla vostra poltrona e prenderete solo ciò che vi sta a portata di
mano. Mentre milioni di melodie esistono sin dal primo principio e
aspettano di manifestarsi!
«La mia disgrazia è di non avere routine», scrisse una volta Wagner a
Liszt, quando non riusciva a procedere col Tristano.
Con ciò Wagner ingannava se stesso e si mascherava di fronte agli altri.
Di routine Wagner ne aveva anche troppa, e il suo macchinario compositivo
si fermava ogni volta che insorgeva uno di quegli intoppi che sono
superabili soltanto con l'aiuto dell'ispirazione. Vero è che Wagner li
superava in fine, se gli riusciva di mettere la routine da parte; ma se
veramente non ne avesse posseduta affatto, lo avrebbe affermato senza
amarezza.
Comunque in quella frase si esprime il giusto disprezzo dell'artista per
la routine, in quanto egli nega di possedere questa qualità che gli sembra
deteriore, e previene la possibilità ch'essa gli venga accreditata. Con
ciò egli loda se stesso e si finge ironicamente disperato. È realmen-te
infelice nel constatare che la composizione è a un punto morto, ma si
consola abbondantemente con la coscienza che il suo genio è al disopra del
comodo uso della routine; d'altra parte si atteggia a modesto, ammettendo
con dolore di non aver acquisito quella maestria ch'è universalmente
apprezzata e pertinente al mestiere.
La sua frase è un capolavoro della naturale scaltrezza dell'istinto di
conservazione - ma ci dimostra (e questo è il nostro scopo) il misero
luogo che la routine occupa nel processo creativo.
Così angusto è divenuto l'ambito della nostra musica, la forma
dell'espressione musicale così stereotipa, che oggigiorno non esiste un
motivo conosciuto a cui non si conformi un altro motivo, tanto che
potrebbero venir suonati insieme. Per non perdermi ora in giochetti, mi
astengo da ogni esempio [13].
Improvvisamente (16) un giorno mi si fece chiaro: lo sviluppo della musica
naufraga sui nostri strumenti musicali, lo sviluppo del compositore sullo
studio delle partiture. Se «creare», secondo la mia definizione, deve
significare «formare dal nulla» (né altro può significare), - se la musica
(anche questo ho già detto) deve tendere a tornare all'«originalità», cioè
alla sua propria e pura essenza (un «ritorno» che deve essere il vero e
proprio passo in avanti); - se deve spogliarsi delle convenzioni e delle
formule come di un abito usato e brillare nella sua bella nudità; -a
questa aspirazione si oppongono in primo luogo gli strumenti musicali. Gli
strumenti sono incatenati alla loro estensione, al loro timbro, alle loro
possibilità di esecuzione, e le loro cento catene legano necessariamente
anche chi vuol creare.
Vano riuscirà al compositore ogni libero tentativo di volo; nelle più
moderne partiture e ancora in quelle del prossimo futuro ci scontreremo
sempre con le proprietà dei vari clarinetti, tromboni e violini, incapaci
di muoversi al di fuori dei loro limiti [14]. Si aggiungano i manierismi
degli strumentisti: il ridondante vibrato del violoncello, l'attacco
esitante del corno, l'impacciata asma dell'oboe, la presuntuosa agilità
dei clarinetti; e così avviene che, anche in un'opera nuova e più
indipendente, si riforma fatalmente la stessa immagine sonora, e anche il
più indipendente dei compositori vien trascinato dentro e in fondo a
questo cerchio immutabile.
Forse ancora non sono state sfruttate tutte le possibilità nell'ambito di
questi confini - l'armonia polifonica dovrebbe poter creare ancora
parecchi fenomeni sonori - ma certo l'esaurimento ci attende, in fondo a
una strada il cui tratto più lungo è già stato percorso. Dove volgeremo
poi lo sguardo, in che direzione ci porterà il prossimo passo?
Io credo: al suono astratto, alla tecnica senza ostacoli,
all'illimitatezza dei suoni. Perciò ogni sforzo deve tendere a che sorga
verginalmente un nuovo inizio.
Colui che sarà nato per creare avrà prima di tutto un compito negativo e
di grande responsabilità, quello di liberarsi da tutto ciò che ha appreso
e udito, da tutto ciò che è apparentemente musicale; per potere,
sgomberato il terreno, evocare in sé un raccoglimento intenso e ascetico
che lo renda capace di elevarsi di un gradino, di percepire il mondo
sonoro interiore e di comunicarlo all'umanità. L'aureola di personalità
leggendaria incoronerà il Giotto di questo musicale Rinascimento. Alla
prima rivelazione seguirà un'epoca di religiosa attività musicale, alla
quale nessuno spirito corporativo avrà parte, in quanto gli eletti e gli
iniziati non potranno non essere riconosciuti, e solo loro ne potranno
essere invece i realizzatori. A questo punto splenderà la massima
fioritura, forse la prima nella storia musicale dell'umanità. Vedo anche
come comincia la decadenza, i puri concetti si confondono e l'Ordine è
sconsacrato...
È il destino degli uomini futuri, e noi - oggi - stiamo a loro come la
fanciullezza alla vecchiaia.
Ciò che oggi più si avvicina all'essenza originaria della musica sono la
pausa e la corona. Grandi esecutori e improvvisatori sanno usare di questi
mezzi espressivi nella misura più alta e più generosa. Il teso silenzio
tra due frasi, in tale contesto musica esso stesso, fa presentire molto
più in là che non un suono più definito, sì, ma appunto perciò meno
duttile.
«Segni» e nient'altro che segni è anche ciò che oggi chiamiamo il nostro
«sistema tonale». Un espediente ingegnoso per trattenere qualche po' di
quell'eterna armonia; una misera edizione tascabile di quell'opera
enciclopedica; luce artificiale anziché sole. - Avete osservato come la
gente spalanca la bocca quando vede una sala illuminata a giorno? Ma non
lo fa mai per la luce meridiana, milioni di volte più forte.
E anche qui i segni sono diventati più importanti di ciò che devono
significare, e a cui possono soltanto alludere.
Come sono importanti la «terza» e la «quinta» e l'«ottava». Con quanta
severità distinguiamo le «consonanze» e le «dissonanze» - là dove
dissonanze non possono nemmeno esistere!
Abbiamo diviso l'ottava in dodici gradi equidistanti, perché dovevamo pure
aiutarci in qualche modo, e abbiamo disposto i nostri strumenti in guisa
che non possano mai darci dei suoni intermedi. Soprattutto gli strumenti a
tastiera hanno abituato a tal punto il nostro orecchio che, all'infuori
dei dodici semitoni, tutti gli altri suoni ci sembrano impuri. E la natura
ha creato una gradazione infinita - infinita! Chi se ne ricorda più oggi?
[15]
E nell'ambito di questa ottava in dodici parti abbiamo segnato ancora una
sequenza di distanze, in numero di sette e su questo abbiamo basato tutta
la nostra musica. Che dico, una sequenza? Sono due, la scala maggiore e
quella minore. Se incominciamo la stessa successione di distanze da un
altro dei dodici gradi intermedi, ciò dà una nuova tonalità, anzi una
tonalità diversa! Quale sistema forzatamente limitato sia sorto da questa
iniziale confusione [16] si può vedere consultando i codici e non staremo
a ripeterlo. Noi insegnamo ventiquattro tonalità, dodici volte le due
successioni di sette note, ma in realtà disponiamo solo di due, la
tonalità maggiore e quella minore. Le altre sono solo trasposizioni. Si
pretende che le singole trasposizioni abbiano caratteri differenti; ma è
un'illusione. In Inghilterra, dove si usa un diapason più elevato, le
opere più conosciute vengono suonate mezzo tono sopra a quello in cui sono
state scritte, senza che il loro effetto cambi. Dei cantanti traspongono
per comodità loro le loro arie, e fanno suonare ciò che precede e che
segue senza trasposizione di sorta.
I compositori di liriche pubblicano non di rado i loro lavori in tre
tonalità differenti: i pezzi rimangono in tutte e tre le edizioni
esattamente gli stessi.
Se un volto noto ci guarda da una finestra, guardi dal primo o dal terzo
piano sarà lo stesso.
Se si potesse innalzare o abbassare un paesaggio, fin dove giunge
l'occhio, di parecchie centinaia di metri, lo spettacolo panoramico non ne
perderebbe né acquisterebbe nulla.
Come base di tutta la musica si sono poste le due successioni di sette
note: il modo maggiore e il modo minore - da una limitazione nasce
necessariamente l'altra.
Si è conferito a ciascuno dei due modi un carattere ben definito, si è
imparato e insegnato a sentirli come opposti e un po' alla volta essi
hanno raggiunto il significato di simboli - maggiore e minore -
soddisfazione e insoddisfazione - gioia e lutto - luce e ombra. I simboli
armonici hanno recinto l'espressione della musica da Bach fino a Wagner e
oltre ancora, fino a oggi, e a dopodomani. Si usa il modo minore con le
stesse intenzioni di duecent'anni fa, e con lo stesso effetto. Oggi una
marcia funebre non si può «comporre», è già lì una volta per tutte. Anche
il profano meno colto sa che cosa l'aspetta quando deve sentire una marcia
funebre - una qualsiasi! Persino il profano prevede la differenza tra una
sinfonia in maggiore e una in minore (19).
È strano che il maggiore e il minore siano sentiti come opposti. Eppure
hanno lo stesso volto; talora più sereno, talora più serio; e una piccola
pennellata basta a trasformare l'uno nell'altro. Il passaggio dall'uno
all'altro è impercettibile e non costa fatica; se si ripete spesso ed è
rapido, i due modi finiscono col balenare l'uno nell'altro in modo
inavvertibile. - Se però riconosciamo che maggiore e minore sono due facce
di un tutto e che le «ventiquattro tonalità» sono solamente trasposizioni
delle prime due, arriviamo di necessità alla coscienza dell'unità del
nostro sistema di tonalità. I concetti di affine e di estraneo cadono - e
con ciò tutta l'ingarbugliata teoria di gradi e relazioni. Noi abbiamo
un'unica tonalità. Ma d'una specie ben misera.
« Unità tonale ».
- «Lei certo intende dire che "la" e "le" tonalità corrispondono al raggio
solare e alla sua scomposizione in colori?»
No, non questo. Perché l'intero nostro sistema di toni e tonalità nel suo
stesso insieme non è che parziale frammento di un raggio decomposto di
quel sole «Musica» ch'è nel cielo dell'«eterna armonia».
Quanto l'attaccamento alle abitudini e la pigrizia fanno parte della
natura umana - altrettanto l'energia e l'opposizione ai valori stabiliti
sono le qualità di ogni essere vivo. La natura ha le sue astuzie e
trascina gli uomini, gli uomini che recalcitrano di fronte al progresso e
al mut-mento; la natura procede continuamente e muta senza posa, ma d'un
moto così uguale e insensibile, che gli uomini percepiscono solo lo stato
di quiete. Solo se si volgono a guardare il passato si accorgono con
sorpresa di essere stati ingannati.
Perciò in ogni tempo il «riformatore» provoca risentimento: le sue
innovazioni sono troppo immediate, e soprattutto percepibili. Il
riformatore - in confronto alla natura - manca di diplomazia, e di
consegueza i mutamenti da lui introdotti acquistano validità solo quando
il tempo, al suo modo impercettibile e sottile, ha percorso lo spazio
ch'egli ha conquistato di sua forza d'un balzo. Pure ci sono dei casi in
cui il riformatore è andato di pari passo col tempo, mentre tutti gli
altri restavano indietro. E allora bisogna costringere costoro, e a suon
di frustate, a varcare d'un balzo il tratto perduto. Io credo che i modi
maggiore e minore e i loro rapporti di trasposizione, cioè il «sistema dei
dodici semitoni», rappresentino un simile caso di arretratezza.
Che alcuni abbiano già sentito come gli intervalli della serie delle sette
note possano venir ordinati (graduati) in modo differente, s'è già visto
in momenti isolati di Liszt e, più esplicitamente, nel movimento musicale
progressista di oggi. La spinta, l'anelito, l'istinto intelligente vanno
in questo senso. Ma non mi sembra che di questi mezzi espressivi superiori
si sia formata una visione cosciente e ordinata.
Ho tentato tutte le possibilità di graduazione della successione delle
sette note, e mi è riuscito di fissare 113 scale diverse abbassando e
innalzando gli intervalli. Queste 113 scale (nell'ottava do-do)
comprendono la maggior parte delle «24 tonalità» conosciute, e in più una
serie di nuove tonalità di carattere proprio. Ma con ciò il tesoro non è
ancora esaurito, perché è possibile la trasposizione di ogni singola di
queste 113 scale e inoltre la mescolanza di due (o perché non anche di
più?) di queste tonalità nell'armonia e nella melodia.
La scala do, re bem., mi bem., fa bem., sol bem., la bem., si bem., do
suona già ben diversa dalla scala di re bem. minore, se consideriamo
tonica il do. Se poi a sostegno armonico le mettiamo il consueto accordo
di do maggiore, ne risulta una sensazione armonica nuova. Ma si ascolti la
stessa scala sostenuta volta a volta dall'accordo di la minore, di mi bem.
maggiore e di do maggiore, e non si potrà far a meno di restare
gradevolmente sorpresi della strana eufonia che ne risulta.
Ma come inquadrerebbe il legislatore nel suo sistema le scale: do, re bem.,
mi bem., fa bem., sol, la, si, do / do, re bem., mi bem., fa, sol bem.,
fa, sol bem., la, si bem., do / o addirittura: do, re, mi bem., fa bem.,
sol, la diesis, si, do / do, re, mi bem., fa bem., sol diesis, la, si, do
/ do, re bem., mi bem., fa diesis, sol diesis, la, si bem., do?
Non possiamo giudicare sin d'ora quali ricchezze di espressioni armoniche
e melodiche si offrano con ciò all'orecchio, ma senza dubbio dobbiamo
ammettere una quantità di possibilità nuove, riconoscibili di primo
acchito.
Dopo questa esposizione si dovrebbe dare l'unità tonale per
definitivamente dimostrata. Un caleidoscopio, dove nella camera a tre
specchi del gusto, della sensibilità e dell'intenzione, vengono agitati
alla rinfusa dodici semitoni: ecco l'essenza dell'odierna armonia.
Dell'armonia odierna, e non per molto tempo ancora: perché tutto annunzia
una rivoluzione e un prossimo passo verso quella «eterna». Rendiamoci
conto ancora una volta che in questa la graduazione dell'ottava è infinita
e sforziamoci di avvicinarci all'infinito almeno di un poco. Il terzo di
tono batte già da un po' alla porta, e noi non gli diamo ancora ascolto.
Chi come me ha fatto in proposito degli esperimenti, per quanto modesti -
sia con l'ugola che su di un violino - includendo in un tono intero due
suoni intermedi ugualmente distanti, e si è esercitato a trovarli sullo
strumento e a sentirli, costui sarà arrivato alla convinzione che i terzi
di tono sono degli intervalli assolutamente indipendenti, di un carattere
ben definito, da non confondere per nulla con semitoni stonati. È questo
un cromatismo raffinato che ci sembra, oggi come oggi, basato sulla scala
esafonica. A volerlo adottare integralmente dovremmo rinnegare i semitoni,
perderemmo la "terza minore" e la «quinta giusta», e questa perdita
sarebbe sentita più fortemente che non il corrispettivo acquisto di un
sistema di «diciotto terzi di tono».
Ma di rinunciare per questo ai semitoni non si vede il motivo. Se accanto
ad ogni tono intero conserviamo un semitono, otteniamo una seconda serie
di toni mezzo tono sopra la prima. Dividiamo questa seconda serie di toni
interi in terzi di tono, e per ogni terzo di tono della serie inferiore
otterremo un corrispondente semitono in quella superiore.
Così è sorto, propriamente, un sistema di sesti di tono, e possiamo esser
certi che anche i sesti di tono diranno la loro parola. Il sistema tonale
che sto delineando deve però prima abituare l'orecchio ai terzi di tono,
senza rinunciare ai semitoni.
Per
concludere: o poniamo due successioni di terzi di tono distanti l'una
dall'altra di un semitono, oppure: tre volte la solita successione di
dodici semitoni a distanza di un terzo di tono.
Chiamiamo, per distinguerle in qualche modo, la prima nota DO e i due
seguenti terzi di tono DO diesis e RE bemolle; il primo semitono do
(minuscolo) e le seguenti sue terze parti do diesis e re bemolle:
l'esempio musicale spiega tutto ciò che manca (20).
Ritengo il problema della notazione secondario. Importante invece, e
impellente, è la domanda come e donde queste note si possano produrre.
Fortunatamente mentre mi sto occupando di questa questione ricevo
direttamente dall'America una notizia autentica, che risolve il problema
nel modo più semplice. È la notizia dell'invenzione del dott. Thaddeus
Cahill [18].
Quest'uomo ha costruito un grande apparecchio che permette di trasformare
una corrente elettrica in un numero di vibrazioni esattamente calcolato,
inalterabile. Poiché l'altezza del suono dipende dal numero delle
vibrazioni, e l'apparecchio si può regolare in modo da ottenere qualsiasi
numero di vibrazioni si voglia, ne risulta che l'infinita graduazione
dell'ottava è semplicemente l'opera di una leva che corrisponde all'indice
di un quadrante.
Soltanto esperimenti coscienziosi e lunghi e una continua educazione
dell'orecchio renderanno questo straordinario materiale maneggevole ai
fini dell'arte e lo metteranno a disposizione della generazione a venire.
Che belle speranze e quali visioni di sogno si destano per l'arte! Chi non
ha già "volato" in sogno? E non ha fermamente creduto di vivere il suo
sogno? - Proponiamoci dunque di ricondurre la musica alla sua essenza
primitiva; liberiamola dai dogmi architettonici, acustici ed estetici;
facciamo che sia pura invenzione e sentimento nell'armonia, nella forma e
nei timbri (perché invenzione e sentimento non sono solo un privilegio
della melodia); facciamo che segua la curva dell'arcobaleno e interrompa a
gara con le nubi i raggi del sole; non sia altro che la natura
rispecchiata nell'anima umana e da lei riflessa; essa è infatti aria che
vibra e va più in là dell'aria; altrettanto universale e completa
nell'uomo che nello spazio poiché può ripiegarsi su se stessa e scorrere
libera senza diminuire d'intensità.
Nel suo libro Al di là del bene e del male Nietzsche scrive:
«Credo necessarie diverse precauzioni di fronte alla musica tedesca: posto
che si ami il Mezzogiorno come lo amo io, quale una grande scuola di
risanamento in ciò che v'è di più spirituale e in ciò che v'è di più
sensuale, come una sfrenata pienezza di sole, un'apoteosi di sole che si
dispiega su di una esistenza sovrana e piena di fede in se stessa: un tal
uomo dovrà guardarsi un poco dalla musica tedesca perché essa,
rovinandogli il gusto, gli rovina anche la salute.
Un simile uomo del Sud - tale non per origine ma per fede -, sogna il
futuro della musica deve sognare anche la liberazione di questa dal Nord,
e aver nell'orecchio il preludio di una musica più profonda, più potente e
forse anche più cattiva e misteriosa; di una musica sovratedesca, che non
svanisca e ingiallisca e impallidisca al cospetto del mare azzurro e
voluttoso e della chiarità del cielo mediterraneo, come a quella tedesca
accade, per ogni musica deve pensare a una musica sovraeuro-pea, che dia
ragione dei bruni tramonti del deserto, la cui anima sia parente alla
palma, e sappia trovarsi a suo agio e trascorrere tra grandi, belle e
solitarie belve.
Io potrei pensare una musica, il cui più strano incanto stesse nel non
saper più nulla del bene e del male, solo qua e là potrebbero sfiorarla
qualche nostalgia di navigante, qualche ombra dorata, qualche dolce
debolezza: un'arte che vedesse rifugiarsi in sé, provenienti da grandi
lontananze, i colori di un mondo morale in declino divenuto quasi
incomprensibile, e fosse tanto generosa e profonda da accogliere in sé
questi tardi fuggiaschi...»
E Tolstoj fa diventare sentimento musicale un'impressione paesaggistica
quando in Lucerna scrive:
«Né sul lago, né sui monti, né in cielo è una sola linea diritta, un solo
colore puro, un solo punto di sosta - dappertutto moto, irregolarità,
abitrio, varietà, un infinito confondersi di ombre e di linee, e
dappertutto il riposo, la morbidezza, l'armonia, la necessità del bello.»
Si raggiungerà mai questa musica?
«Non tutti raggiungono il Nirvana; ma chi, dotato sin dal principio,
impara tutto ciò che bisogna conoscere, esperimenta tutto ciò che bisogna
sperimentare, abbandona ciò che bisogna abbandonare, sviluppa ciò che
bisogna sviluppare, realizza ciò che bisogna realizzare: costui arriva al
Nirvana". (Kern: Storia del buddismo in India).
Se il Nirvana è il regno «al di là del bene e del male», qui è indicata
una strada che muove in quella direzione. Fino alla porta. Fino al
cancello che separa uomini ed eternità - o che si apre per accogliere ciò
che è passato di vita terrena. Al di là della porta risuona la musica. Non
l'arte dei suoni.
Forse noi stessi dobbiamo lasciare la terra prima di poterla percepire. Ma
solo al pellegrino che per via ha saputo spogliarsi dei legami terreni il
cancello si apre.
IL REGNO DELLA MUSICA
(epilogo della nuova estetica) (21)
Venite, seguitemi nel regno della musica. Il cancello che divide il
terrestre dall'eterno è qui.
Avete disciolto e gettato via le catene? Allora venite. Non è come quando,
una volta, entrammo in un paese straniero; e presto vi apprendemmo tutto,
e nulla ebbe più a sorprenderci. Qui lo stupore non avrà fine, e sin dal
principio ci sentiremo di casa.
E ancora, non udrete nulla, perché tutto risuona. E già cominciate a
distinguere. Tendete l'orecchio, ogni stella ha il suo ritmo, ogni mondo
la sua battuta. E su ogni stella e su ogni mondo il cuore d'ogni singolo
vivente batte diversamente dall'altro, giusta una legge sua propria. E
tutti i battiti s'accordano, e sono una sola cosa, e un tutto.
Il vostro orecchio interno si fa acuto. Udite i bassi e gli acuti? Sono
incommensurabili come lo spazio, infiniti come il numero. Al modo di
nastri si traggono, inopinate scale, da un mondo all'altro, fissi in moto
eterno. Ogni suono è centro di cerchi non misurabili.
Ed ora vi si manifesta il suono! Innumerevoli sono le sue voci, paragonati
ad esse è il sussurro delle arpe un fracasso, lo squillo di mille tromboni
un pigolìo.
Tutte, tutte le melodie dapprima udite e inaudite risuonano senza
eccezione e ad un tempo, vi trasportano, impendono su di voi, vi sfiorano
- melodie dell'amore e della passione, della primavera e dell'inverno,
della malinconia e della sfrenatezza -, sono esse stesse gli animi di
milioni d'esseri di milioni d'epoche. Avvicinatene una all'occhio, vedrete
come è congiunta con le altre, combinata con tutti i ritmi, colorata di
tutti i colori, accompagnata da tutte le armonie, sino al fondo d'ogni
fondo, sino all'arco d'ogni vòlta dei cieli.
Ora intendete come pianeti e cuori siano una cosa e insieme e non mai e in
nessun luogo possa darsi una fine, in nessun luogo un ostacolo; che nello
spirito dell'essere l'infinito vive completo e indiviso; che ogni cosa è
al tempo stesso infinitamente grande e infinitamente piccola; e che luce,
suono, moto, energia sono identici, e che ognuna di queste cose per sé e
tutte riunite sono la vita.
Dayton, 3 marzo 1910 |